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Articoli di giornale Bidogno Chiesa Parrocchiale Storia

L’assedio del campanile di Bidogno

Tratto da “Illustrazione Ticinese” del 18 novembre 1933

In un archivio privato ho trovato la seguente cronaca, scritta fin dal 1855 dal defunto arch. Carlo Quirici. Credo opportuno trascriverla, perchè, pur tralasciandone alcuni squarci, essa getta alquanta luce sui costumi pressoché
medioevali che si riscontravano ancora nei nostri paesi, nel secolo scorso.

***

Il campanile di Bidogno

Sul principio dell’anno 1812, un certo Pietro Gianini di Alburno (frazione di Corticiasca) soprannominato Pedron, uomo fortissimo e violento, nonché provetto ramaio di famiglia distinta, con negozio in Milano, per spirito di partito, s’era impegnato con un altro degno compagno, di uccidere un certo Chicherio di Bellinzona e Giovanelli Vincenzo di Bidogno, aspiranti alla carica di giudice.

Un giorno tirò un colpo di fucile, con due palle unite a catena, a metà circa della porta d’ingresso della casa Giovanelli, credendo di colpire così il detto Vincenzo che si trovava vicino alla porta, internamente.

Il colpo falli. La giustizia si occupò subito del fatto e mandò tosto il capitano Rodolfo Inderbitz di Altorf, uomo aitante e coraggioso, con due birri, per arrestare il Pedron e il di lui compagno Lepori di Roveredo, detto Bracch, i quali, in quel giorno, si trovavano casualmente nella casa del parroco.

Sentendo picchiare alla porta col martello di ferro, il parroco mandò ad aprire il suo domestico. Il capitano, udendo scorrere il catenaccio che chiudeva la porta dall’interno, ordinò ad un birro di tirare una fucilata all’altezza del petto, credendo così di uccidere lo stesso Pedron; ma avendo il birro tirato un po’ alto, ed essendo il domestico piccolo di statura, la palla gli rasentò la testa e andò a scheggiare una trave in faccia alla porta.

Il Pedron allora, intuendo che l’intenzione dei birri era di prenderlo vivo o morto, fuggì dall’interno, sulla volta della chiesa, attigua alla casa parrocchiale, e da quella, per un buco, si rifugiò sul campanile. Ma la stessa via l’aveva
già presa il Parroco, il quale, invaso dal terrore e credendo che i ladri stessero per svaligiargli la casa, era salito sin sul cornicione posto al di sopra del piano delle campane, ove rimase appollaiato fino al mattino seguente.

Il Bracch, compagno del Pedron, rimasto solo, 10 seguì nella fuga; ma il Pedron, già giunto al piano delle campane, sentendo salire per la scala di legno un uomo, pensò che fosse un birro, e nell’oscurità, gli assestò sul capo un terribile
colpo col calcio del suo corto trombone, così che il povero Bracch, rotolò tramortito sino al piano inferiore, gridando: «Oh Pedron, tô mè mazzò! » E sentendosi vicino a morire, chiedeva il parroco per l’estrema unzione.
Il Pedron, dall’alto del campanile chiamò i popolani che erano accorsi al tocco delle campane suonate dal parroco nel salire in cima alla torre, e fece loro intendere che, avendo ferito a morte in fallo il suo compagno, gli mandassero il parroco. Questi, che aveva udito tutto dall’alto del suo rifugio, fu preso da tale spavento che non volle scendere, temendo della vita. Così nella notte, il Bracch morì abbandonato da tutti, chiedendo nell’agonia l’assoluzione di tutti i suoi peccati.

All’alba, i popolani videro il povero parroco rannicchiato sul cornicione e intirizzito dal freddo, e lo invitarono a scendere. Anche il Pedron lo assicurò non temesse di nulla. Finalmente, egli si calò al piano delle campane, ove il Pedron con un ginocchio a terra gli baciò la veste, e sceso al piano inferiore, scavalcò il cadavere del Bracch, al quale diede la benedizione.

Il Pedron restò tutto il giorno sul campanile, assediato dai birri e dai volonterosi cittadini, armati di fucili e che non si arrischiavano a salirvi, temendo fare la fine del povero Bracch.

Una sorella del Pedron, maritata a Bidogno, si portò alta mattina in un campo situato a nord del campanile, e che si trova a 8 metri circa di altezza dal pian terreno della torre, e fingendo di curiosare, gridò all’assediato, nel furbesco dialetto montano: « German, branca sta tibiessa che t’avarè ghîa » (fratello prendi questo pane che avrai fame) – e gli gettò con forza e destrezza il pane, che il Pedron potè raccogliere dal primo finestrone e sfamarsi per quel giorno.

Anche nella seconda notte, continuò l’assedio al campanile e furono accesi dei fuochi. Il secondo giorno, la sorella, scoperta, non potè soccorrere il fratello. Perciò, questi, affamato, uccise il fedele cagnolino che l’aveva seguito, e ne fece abbrustolire la parte posteriore sul fuoco che aveva acceso con schegge tolte al congegno a tasti per il suono delle campane a festa.

Infine il digiuno lo consigliò di venire a patti col capitano dei birri: fu convenuto che egli facesse scendere al di fuori del campanile il temuto trombone, servendosi della corda di una campana, poi si arrendesse, assicurandogli salva la vita.

Infatti, calato il fucile, il Pedron si consegnò ai birri. Mangiò, poi legato, fu condotto a Bellinzona nella prigione del castello d’Uri, dalla quale, dopo pochi giorni, riuscì a fuggire rifugiandosi sul milanese, a Concorezzo prima, poi a Piacenza, ove rimase a lavorare da ramaio per molti anni.

Ritornato in patria in età molto avanzata, la giustizia non si occupò più di lui. Egli discendeva dal suo romito villaggio, a Bidogno, nelle case più agiate, ove fu sempre accolto benevolmente, non sembrando vero a quella popolazione buona e pacifica, di vedere così quieto e umiliato quell’omone tanto temuto.

L’ultima volta che si recò a Bidogno, sentendosi mancare le forze, volle confessare tutti i suoi peccati, e il Parroco gli impose per penitenza, di chiedere perdono in chiesa a tutto il popolo.

Infatti il giorno dopo, ch’era domenica, prima della celebrazione della messa, il Pedron si presentò al popolo dal presbiterio, e tenendosi appoggiato alla balaustra, rizzatosi più che potè, con la barba lunga e candida, disse a voce alta a rauca : « Popol de Bidögn, av domande perdon de tucc i stremizze ca vo face teui sù e di pecad co facc in dro pais contra i comandamente de Dio. Am perdonèv ? »

I fedeli stupefatti e commossi, risposero ad alta voce: « Si, si, am vè perdona in nome de Dio ! setèv giù, povro vegg. »

Allora il vecchio ricevette la benedizione dal parroco e stette inginocchiato ai piedi dell’altare per tutta la durata della messa, appoggiato con le due mani al bastone.

Non scese più a Bidogno e mori tre anni dopo. Fu trasportato alla tomba, adagiato sul cataletto, scoperto, come s’usava a quei tempi, col crocifisso sul petto e le mani legate col rosario, seguito da tutta la popolazione pregante pace all’anima sua.

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Articoli di giornale Bidogno Storia

Matrimonio pittoresco celebrato a Bidogno

Tratto da “GAZZETTA TICINESE” del 28 ottobre 1963

Sabato a Bidogno venne celebrato un matrimonio di eccezionale pompa pure nella sua semplicità, pit­toresco per l’impostazione che richiama forse i matrimoni signorili dei tempi dell’Ottocento. Infatti l’ing. Candido, figlio del Si­gnor Storni, impresario di Bidogno, che ha un complesso industriale edile a Meilen, si sposava con un’avvenente signorina, Maria Maddalena Butti e, fedele alla terra natale e alla sua Valle Capriasca, ha voluto celebrare il rito nuziale nella semplice chiesetta della Madonna delle Grazie alla quale dà accesso la bel­la e pittoresca via Crucis di Bido­gno. Già di buon mattino alcuni in­caricati procedevano a scaricare da un treno giunto dalla Svizzera interna, ventidue cavalli tra i quali quat­tro bianchi, con i relativi landò. Il corteo con la carrozza nuziale addobbata in bianco, partiva dalla Casa Torre di Cassarate per poi giungere a Bidogno dopo aver percorso la strada per Tesserete per giungervi alle 16.30. Festosa accoglienza riservata al lungo e insolito corteo — snodatosi sotto una pioggia di confetti — la popolazione del paese montano; la cerimonia delle nozze aveva poi luo­go nel Municipio in forma civile e nella chiesetta già citata in forma religiosa. Gli sposi offrivano poi il pranzo a tutta la popolazione delle frazioni di Case Ferretti, Casa Nuova e Ventiga, pranzo preparato al Ristorante Camoghè di proprietà del signor Mario Storni. I cavalli e i landò riprendevano quindi la via verso Lugano e i par­tecipanti eseguivano un giro sul la­go con battello speciale. La sera all’albergo Müller In Castagnola veniva servito agli sposi e ai parenti il banchetto nuziale. La singolare, caratteristica e vivace cerimonia venne ripresa dalla nostra TV e da numerosi fotoreporter.

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Corticiasca Storia

La frana di Corticiasca

La frana di Corticiasca Alla fine dell’800 il comune di Corticiasca contava circa 250 abitanti (oggi ve ne sono appena un centinaio). La gente si occupava principalmente d’agricoltura (coltivavano segale, patate e rape), ma vi era anche un’importante attività di pastorizia (in particolare pecore), di sfruttamento del bosco (castagni, faggi) e di apicoltura. Proprio in quegli anni, in paese si sfiorò la tragedia. Era la sera del 5 agosto 1896 e sulla regione si era scatenato un vero nubifragio. Il vecchio abitato di Corticiasca, ora chiamato “Corticiasca vecchia”, venne colpito da una frana che scivolò lungo un corridoio di un centinaio di metri di larghezza fino a sfiorare la facciata della chiesa dei SS. Fermo e Rustico, rimasta fortunatamente intatta. Non si trattò di una frana di grosse dimensioni, perché il materiale melmoso e sassoso non si rovesciò sull’abitato, ma si spostò praticamente sotto lo strato superficiale del terreno.

1880-1900 La frana di Corticiasca

La sensazione che ebbero gli abitanti del paese fu che il terreno scivolasse lentamente sotto i loro piedi. La spaccatura nel terreno creata dal movimento sotterraneo provocò il crollo di otto case. Sul Corriere del Ticino dell’8 agosto si riporta il racconto degli abitanti del paese: “Ieri sera, verso le tre, si scatenò qui un impetuoso temporale accompagnato da grandine, che durò sino alle 10 di notte; quel diluvio d’acqua trasformò i più piccoli ruscelli in grossi torrenti, che provocarono la caduta di numerose frane: da tutte le parte udivasi un cupo rumoreggiare di scoscendimenti, sì che ci pareva che i monti volessero sfasciarsi per tutti seppellirci sotto le loro macerie… Chi piangeva, chi gridava aiuto, era uno spettacolo tale, da far compassione anche alle pietre.” In un primo momento si temette per la vita di molti abitanti ma alle prime luci dell’alba e con il rientro dei “dispersi” (una parte si rifugiò nei villaggi vicini, altri nelle stalle dei monti) tutti tirarono un sospiro di sollievo nel constatare che la frana aveva causato solo danni materiali. Le sette o otto famiglie evacuate dalla zona avrebbero dovuto trasferirsi altrove e l’allora Consigliere di Stato Rinaldo Simen propose loro di andare ad abitare al piano della Stampa, vicino a Lugano. Gli abitanti del vecchio nucleo di Corticiasca vollero però rimanere fedeli alle loro radici e si trasferirono in altre frazioni del paese, andando tra l’altro a ricostruire le case dove ancor oggi sta il paese di Albumo. Il recente studio effettuato dall’Istituto cantonale Scienze della Terra ha appurato la precarietà del terreno, in quanto sotto lo strato di roccia che ricopre Corticiasca vecchia scorre dell’acqua. Questo rende la zona esposta ad un certo rischio di nuovi franamenti. In particolare si è constatato che alcuni piccoli riali disperdono le loro acque sul versante a monte del nucleo vecchio. La stessa acqua riappare più a valle (a quota 950 m sopra il livello del mare, Corticiasca vecchia si trova all’altitudine di 1060 m s.l.m.) sottoforma di sorgente. L’acqua scorre quindi all’interno della frana, proprio in corrispondenza della zona di massimo movimento. Per risolvere il problema si potrebbe per esempio procedere ad un drenaggio delle acque superficiali a monte del vecchio nucleo.

Bibliografia:

· Scuola media Tesserete: La frana di Corticiasca. In: Mosaico, n. 9, 1994.

· Morosoli Aldo: La frana di Corticiasca. In: “Come eravamo”, Scuola media Tesserete, 2001.

· Canonica, Arturo: Corticiasca. Consorzio Raggruppamento di Corticiasca, 1997.

· Scuola media Tesserete: Corticiasca – Scareglia, itinerario di geologia. In: “Val Colla, una valle da scoprire”. Pregassona, Fontana Edizioni.

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Articoli di giornale Bidogno Divina Maestà Storia

L’oratorio della MAESTÀ a BIDOGNO

Tratto da “Illustrazione Ticinese” del 29 settembre 1956

Quando arrivate a Bidogno, nell’Alta Capriasca, abbandonate, all’entrata del paese, la strada car­rozzabile per Corticiasca (e che da pochi anni, operato il congiungimento con Scareglia, per­mette di compiere il giro completo della Valle) e volgete i vostri passi verso la piazza, passate sotto un angusto portico e seguite l’antica via che, prima della carrozzabile, conduceva al vil­laggio di Corticiasca in mezz’ora di cammino tra boschi di castagni.

Ecco davanti ai vostri occhi, una larga, ripida strada affiancata da due scalinate che sale verso il cielo. Fan da guardia ai margini, le 14 cappelle ritte e solide come soldati. Al vertice del poggio domina una chiesa, un sobrio ed accogliente por­tico, un piccolo vivace campanile. State ammi­rando la caratteristica Via Crucis e l’Oratorio della Maestà di Bidogno.

L’erba ha steso un sottile, soffice tappeto, che attutisce i passi, tra il selciato dell’ampia gradi­nata. Mentre salite, vi par di accedere a un trono e il paesaggio vi appare sempre più vasto e va­riato.

La tradizione narra che nel 1607 certo Mar­tino Quirici ottenne una grazia dalla Madonna e fece voto di costruire una cappella presso casa sua, in quel di Bidogno. Vuolsi che la Madonna apparve al beneficato sul magnifico poggio che domina la Capriasca, a quota 850 a nord del paese, ove attualmente sorge l’Oratorio. Il Qui­rici fece erigere, sul luogo dell’apparizione, una piccola Cappella, nel 1608, completandola con un dipinto della Vergine col bimbo in braccio, di un anonimo pittore. Nel 1644 i fedeli e il par­roco di Bidogno, allora il Sac. Francesco Qui­rici, raccolsero i fondi e iniziarono la costru­zione, al posto della piccola cappella, di un Oratorio. Sull’altare posero il primitivo dipinto che è ancora quello che vi si conserva tutt’oggi. L’Oratorio venne denominato della Maestà e dedicato alla Madonna delle Grazie. La costru­zione, a forma di croce greca, comprendeva l’at­tuale navata centrale, due bracci laterali, il cam­panile e venne aperta al culto nel 1653. Gli or­namenti di stucco dell’altare furono opera dello stuccatore Galeazzo Riva. Nel 1711, parroco il sac. Giovanni Maria Muschi, fu costruito l’altare di mar­mo, opera di P. G. Rossi di Arzo, completato nel 1846 col tabernacolo e i due gradini in marmo. La costruzione del porticato davanti al­l’oratorio, con colonne e lastre di granito, ini­ziata nel 1726, terminò due anni dopo. Certo Enrico Sarinelli di Bidogno, morto nel 1717, la­sciò i suoi beni per dotare l’Oratorio di una cam­pana che, secondo i suoi desideri avrebbe do­vuto pesare 326 chili. Ma, ahimè, l’eredità era gravata da parecchie passività e permise l’acqui­sto, nel 1728, di una campana di ben più mo­deste proporzioni. Il campanile era piuttosto piccolo e nel 1744 i parrocchiani prestarono gratuitamente l’opera loro per innalzare un’adat­ta torre campanaria, a fianco dell’oratorio verso ovest, ricevendo in compenso razioni di pane, formaggio e vino…

Reggeva la parrocchia il sac. Carlo Costante Sarinelli, ed a lui si deve l’iniziativa di aver ini­ziato la costruzione della magnifica Via Crucis, lungo la ripida «risciada» che conduce dal paese all’Oratorio.

I maggiorenti della parrocchia, riuniti nel marzo del 1756 si impegnarono con atto pubbli­co, ad erigere le cappelle e a farle dipingere en­tro due anni, a patto che il comune assumesse l’onere di costruire una strada larga e di curarne la manutenzione. La forma, la misura, la distan­za delle cappelle, e il progetto della strada fu­rono subito allestiti e ogni famiglia si sobbarcò le spese per la costruzione di una cappella. Anche il parroco figura tra le persone che contribuirono al compimento delle opere. Ma non ebbe la consolazione di veder condurre in porto la Via Crucis, a cui tanta passione aveva dedi­cato, poiché morì nel settembre del 1758.

Il sac. Giacomo Galletti, parroco dal 1815 al 1861 (e deputato al Gran Consiglio per il partito liberale al tempo della soppressione dei conventi) costruì il retrocoro dell’Oratorio. La sistemazione dell’Oratorio come è attualmente è opera del sac. Don Giuseppe Caro che resse Bidogno dal 1894 al 1924. Egli fece aggiungere le due navate laterali, aumentando la capienza, della chiesina e sistemò a nuovo il presbiterio, il campanile e il coro. Di sua iniziativa fece ridi­pingere le cappelle della Via Crucis e arretrare un po’ l’altare, trasportandolo tutto d’un pezzo. I restauri durarono dal 1909 al 1913 e lo stesso parroco collaborò con la somma di Fra. 3607.

Sul dipinto della Madonna, sull’altare, opera di un ignoto pittore della Val Solda fu aggiunta più tardi, a tempera, la figura di San Giuseppe, non si sa se per colmare il vuoto a fianco della Madonna. Comunque si nota la diversità della pittura.

In sagrestia sette quadri di grazie ricevute stanno a dimostrare la devozione ancor viva de­gli abitanti di Bidogno per la loro Madonna. Le pitture sulle cappelle della Via Crucis sono in gran parte scomparse e solo alcune sono ben conservate. Non erano certamente di gran va­lore. Si pensa, certo quando ci saranno i fondi, di procedere a una nuova rinfrescatura.

Per chi si reca, a piedi, da Bidogno a Corticiasca è d’obbligo passare per questa che è una delle più belle Vie Crucis del Ticino, e sostare un attimo, davanti al piccolo porticato (sotto cui, sul portale, è ben conservato un affresco raffigurante l’Annunciazione, datato del 1646) sul sagrato erboso sorretto da un alto muro, e dominare da questo aereo belvedere tutta la re­gione fino alla pianura Padana.

Sergio Tamburini

(Note storiche gent. concesse dal M. R. Don Giulio Salmina, Parroco di Bidogno)

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Articoli di giornale Bidogno Storia

Piccola guida dei comuni Ticinesi

Tratto da “Illustrazine Ticinese” del 31 luglio 1943

Bidogno

Altitudine: 790 m. s. 1. m.

Estensione: Kmq. 3,87

Popolazione: 429 abitanti

Situazione: A km. 4,5 da Tesserete al quale è unito mediante un servizio automobilistico postale.

Frazioni: Muschi, Rossi, Faretti, Mulino, Rupiaggio e Lupo.

Posta, Telefono, Telegrafo.

Chiesa parrocchiale di San Barnaba, con concerto di 3 campane.

Oratorio della B. V. della Maestà o delle Grazie.

Attività degli abitanti: Agricoltura montana, artigianato e costruzioni edilizie.

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Storia Via Crucis

La Via Crucis di Bidogno

“Quattordici solide ed eleganti cappelle di vivo sasso che fiancheggiano una larga ma erta strada, che, dalle ultime case del villaggio, sale fino al sagrato dell’oratorio della Madonna.”
Questa semplice e storica definizione basterebbe ad immaginare qualcosa di sicuramente bello e importante. Ma bisogna proprio recarsi sul luogo per rendersi veramente conto di quanto imponente e meraviglioso sia questo monumento che è un po’ l’emblema del piccolo villaggio di Bidogno e che gli esperti giudicano essere uno
dei più belli – in questo genere – di tutta l’area culturale lombarda.
La Via Crucis è considerata un’opera di arte popolare, perché fu concretamente realizzata dalla gente del posto. In effetti la gente diede la propria collaborazione nei più svariati modi: mano d’opera, trasporto (a spalla) del materiale, donazioni e offerte in denaro.
La sua storia nasce nell’animo di quelle semplici persone che sentirono la necessità di collegare le case del paese all’allora cappella della Madonna eretta sul piccolo promontorio nell’anno 1608 a seguito del voto fatto da Martino Quirici.
Martino era un emigrante che ritornava a Bidogno per le feste di Natale. Durante il viaggio si fermò in una locanda, dove venne tratto in inganno dall’oste che voleva rubargli i soldi. Nel momento del pericolo invocò la Madonna, facendo voto di erigere una cappella se fosse riuscito a salvare la vita. La Madonna fece il miracolo e Martino costruì l’edicola “sullo spiazzo magnifico che domina tutta la Capriasca e dintorni, a sinistra della via che conduce a Corticiasca” facendovi dipingere da un pittore anonimo l’immagine della Madonna con il Bambino incoronati.
La parrocchia di Bidogno è stata eretta dal cardinale Federico Borromeo, vescovo di Milano, nel 1615 e comprende gli abitati di Bidogno, Corticiasca, Albumo, Treggia, Lupo, Somazzo e Carusio. La cappella fatta erigere da Martino Quirici venne ampliata e trasformata in oratorio, il quale venne aperto al culto verso la fine del 1653. L’oratorio è dedicato alla Madonna delle Grazie, anche se popolarmente viene denominato “Oratorio della Maestà”. Dal 1756 al 1758 il sacerdote Carlo Costante Sarinelli fece costruire in vivo sasso le 14 cappelle della Via Crucis che salgono dal paese verso l’oratorio. Chi si ferma ad ammirare quest’opera è attratto dal selciato – dove i ciottoli disegnano motivi ornamentali – e dalla forma delle cappelle, ognuna differente dall’altra nella parte superiore e nelle decorazioni esterne. La Via Crucis propone, nel susseguirsi delle 14 stazioni, i momenti della passione di Gesù, dalla condanna a morte alla crocifissione. Le cappelle fanno da ala alla strada in salita, quasi a dare l’immagine della fatica e del dolore dell’ascesa di Gesù al monte Calvario.
Tra il 1908 ed il 1909 ci fu il primo e completo restauro della Via Crucis, sotto l’attenta vigilanza dell’allora parroco don Giuseppe Carò. Gli affreschi originali (praticamente scomparsi) furono rifatti da Luigi Faini di Milano, come risulta dalla firma alla cappella XIV. In una nuova fase di restauri, iniziata nel 2001, sono stati eseguiti dei lavori sulla parte architettonica delle 14 cappelle, la pulizia del sasso e il rifacimento delle “fughe” rovinate dal tempo. In seguito è stato ritoccato, dove era necessario, il selciato delle gradinate laterali e della carreggiata centrale. Da ultimo si è posto mano al restauro dei dipinti, lavoro che richiede una particolare attenzione per ridare all’opera il suo naturale splendore.

Nel video Usi e costumi del Ticino – lanostraStoria.ch:

  • La via Crucis di Bidogno, Val Colla
  • Davanti all’oratorio sostavano le donne che salivano o scendevano dai vari “monti” con la gerla sulle spalle
  • La battitura delle castagne nel sacco sul ceppo, per togliere la buccia
  • Una donna, con la cesta apposita detta ventilabro, fa volare le bucce delle castagne

Su gentile concessione di: lanostraStoria.ch

1 luglio 1973 – Vincenzo Vicari
© RSI Radiotelevisione svizzera di lingua italiana


Bibliografia:

 Bari, don Attilio: La parrocchia di Bidogno. Bidogno, 1964.
 Consiglio parrocchiale Bidogno: Bidogno – La Via Crucis, un monumento da salvare. Bedano, tipografia New Luxor, 2001.
 Keller, Walter: Le origini dell’oratorio della Madonna delle Grazie a Bidogno. In: Il
Meraviglioso: vol. 2. Locarno, Dadò, 1991, pp. 46-49.

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Le 14 cappelle della Via Crucis

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Articoli di giornale Bidogno Carusio Storia

Vivi e morti a Carusio chiedono la strada

Tratto da “Illustrazione Ticinese” del 16 maggio 1953

Carusio, paese dell’Alta Capriasca che amministra­tivamente dipende da Corticiasca, ma che di na­tura è legato a Bidogno per tutte le esigenze della vita quotidiana, si lamenta – e giustamente – di non possedere una strada che lo unisca a questo Comune.

Il traffico da e per Bidogno avviene su un disa­giato sentiero, a volte persin pericoloso, il quale, ad un dato punto, incontra un ponticello di legno che spesso è travolto dal cattivo tempo.

Per chiedere la costruzione della già da tempo progettata strada, perlomeno di carattere agricolo, gli abitanti di Carusio mostrano alle autorità ed ai Ticinesi tutti questa, invero sconfortante, visione di come avviene un funerale nel loro paese.

La bara dev’essere portata a mano per quaran­tacinque minuti d’impervio sentiero, passando per tratti dove un piede messo in fallo può costare la vita. Si pensi, d’inverno o in giornate di tempo av­verso, quale difficoltà incontra il funebre accompagnamento per raggiungere il Cimitero di Bi­dogno!

Effettivamente, a Carusio, se la vita quotidiana non è facile, anche la morte è dura.

Giustizia vuole che tali deplorevoli condizioni siano eliminate e che Carusio abbia finalmente il suo congiungimento stradale (che del resto non mi­surerebbe nemmeno due chilometri) con Bidogno.

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Parrocchia di Bidogno Storia

Elenco dei parroci di Bidogno

In 382 anni di storia (dal 1639-2021), la parrocchia di Bidogno ha visto susseguirsi i seguenti parroci:


D. Francesco Quirici (1639-1680), di Bidogno
D. Lorenzo Quirici (1680-1706), di Bidogno
D. Giovanni Maria Muschi (1706-1723)
D. Carlo Costante Sarinelli (1723-1758)
D. Giovanni B. Mari (1758-1784), di Lupo
D. Antonio M. Cattaneo (1784-1787), di Cagiallo
D. Giovanni D. Quirici (1787-1796)
D. Michelangelo Fumasoli (1796-1815), di Vaglio
D. Giacomo Galetti (1815-1861), di Origlio
D. Giuseppe Quirici (1861-1874)
D. Luigi Quirici (1874)
D. Tranquillino Antonini (1874-1880), di Lugaggia
D. Giorgio Lepori (1880-1894), di Roveredo
D. Giuseppe Carò (1894-1924), di Chiasso
D. Riccardo De Micheli (1924-1932)
D. Filippo Martinaglia (1932- 1937)
D. Giulio Salmina (1937-1957)
D. Carlo Quadri (1957-1961)
D. Attilio Bari (1961-1967)
D. Lino Mellesi (1967-1970)
D. Pierino Bianda (1970-2002)
D. Michele Fornara (2002-2005)
D. Pietro Pezzoni (2005-2008)
D. Massimo Braguglia (2008-2011)
D. Fabio Studhalter (2011-agosto 2020)
dal 1 settembre 2020 mons. Ernesto Barlassina, del clero diocesano di Lugano e Parroco Prevosto di Tesserete, ha aggiunto ai suoi incarichi quello di Amministratore parrocchiale della parrocchia di Bidogno.

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Articoli di giornale Chiesa Parrocchiale San Barnaba Storia

Messi in luce gli affreschi della chiesa di San Barnaba

Tratto da “GAZZETTA TICINESE” del 12 luglio 1966

Chi avrebbe pensato che la chie­sa parrocchiale di San Barnaba celasse, sotto la coltre di calce, pre­ziosi affreschi che si possono far ri­salire verso il 500? Essi sono venu­ti alla luce non tanto tempo fa e si è dato mano a metterli in evidenza nel loro splendore durante l’inver­no scorso. Sono così stati messi in rilievo gli affreschi della volta e anche quelli ai lati dell’altare. Un lavoro pregevole è stato fatto ed è stata opera da certosino, al fine di non guastarli. La Chiesa si presenta così con un nuovo volto e ciò che è da mettere in evidenza si presenta con questi ottimi dipinti che, per tanti decen­ni, se non addirittura per secoli, fu­rono nascosti e di conseguenza igno­rati.

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Articoli di giornale Bidogno San Barnaba Storia

Passeggiate e sagre del mese di giugno

Tratto da “AZIONE” Settimana dal 7 al 13 giugno 1956 – N. 24 • 8 pagina

Chi da Tesserete muove il passo sulla carrozzabile polverosa, ma che si snoda, come per incanto, sotto una galleria ombrosa di fronde di casta­gno, giunge nell’Alta Capriasca, a Bidogno, villaggio che sta come ap­pollaiato sul versante con le sue cen­to case rustiche e cordiali; Bidogno già fu lodato da San Carlo Borromeo che trovò quella terra «bella di erbose pendici». Il paese in quel tempo faceva parte della parrocchia di Tesserete.

Dopo la visita pastorale del 1581, San Carlo emanò il decreto che doveva separare Bidogno e le sue terre da Tesserete e voleva l’erezione della chiesa dedicata a San Barnaba. La chiesa effettivamente venne edificata e l’arcivescovo Arcimboldi la consacrò. Ma l’Istituzione a parrocchia propria, Bidogno l’ottenne solamente nel 1639 da parte di Urbano VIII.

San Barnaba, che cade l’11 giugno di ogni anno, segna per il montano villaggio un giorno di intima e sere­na festa. È la sagra del paese che viene sempre celebrata per lo più la domenica successiva e reca, in tutta la vallata, da Lopagno a Roveredo, a Treggia, a Corticiasca, un’atmosfera insolita di festosità. È una giornata di viva devozione, anche un momento di distensione tranquilla per quella popolazione che, lungo l’ar­co dei mesi e dei giorni delle quattro stagioni, suda e lavora sulla magra terra.

Già qualche giorno prima che giunga la sagra, dal bel campanile che svetta alto nel cielo, dirimpetto alle caratteristiche montagne che circondano la valle, tra le quali si distinguono le Canne d’Organo e, più lontani, il Gazzirola e il Baro puliti sempre e lucidi, si staccano melodiosi i tocchi delle campane a festa. La gente dice che allora si «suona da torta» e la espressione, colorita e di sagace intuito popolano, rende magnificamente l’idea, poiché proprio per San Barnaba – eccettuato Natale – i contadini di quassù si danno da fare a preparare la frugale e nostrana torta di pane, ricca di cedro, di uva passa, di cacao, di pignoli e di zucchero.

Suonare da festa era nei tempi della nostra fanciullezza un’arte: e quest’arte, pur ingenua e alla mano, era prerogativa di giovanotti esperti che avevano dal curato il permesso di salire sulla torre campanaria; verso il tramonto i giovanotti e qualche uomo maturo si pigiavano entro le bifore, quasi come apparizioni irreali sotto un cielo di quarzo levigato, e dalle loro mani fioriva una melodia, un’armonia densa e vellutata di accenti, un andirivieni di note acute e gravi, un ricamo fittissimo di note che ci dava la sensazione che in quei giorni le campane avessero iniziato un loro strano colloquio. E il fraseggio sonoro non aveva sosta, neppure verso la notte, quando le stelle apparivano a illuminare le vie tenebrose del cielo. Sul campanile splendevano le lanterne, e fuochi roteavano di fuori in una sarabanda inconsueta. Era l’annuncio che San Barnaba s’avvicinava, che il giorno dei suoi miracoli si stava per spiegare; quando, poi, la vigilia era giunta, il concerto a festa si faceva di botto imperioso; e i colpi di battacchio della campana maggiore e della piccolina erano interrogativi gravi e dolci, ai quali rispondeva la mezzana, quieta, di una sua voce suasiva che diceva speranza e gioia.

Nel frenetico tinnire di note le massaie iniziavano la preparazione della torta. In casa c’era un gran trambusto in quei beati tempi che sembrano ormai fuori della memoria. La nonna, la prozia, la mamma cominciavano a schiacciare con forza, tra le mani, il pane messo a rammollire in acqua e latte qualche giorno prima. Lo si schiacciava entro ampie marmitte, nelle così dette conche di rame, fino a ridurlo in poltiglia. Quindi, ecco i succosi ingredienti che noi fanciulli, furtivi, cercavamo di carpire dai cartocci messi in disordine sulla tavola o sul cornicione del camino, oppure sulla cassapanca.

Non si faceva economia, allora; ma occorre rilevare che solo in quel giorno dell’anno non si faceva economia. In ogni famiglia appariva qualche cosa di più; già, era San Barnaba che provvedeva e faceva sì che niente mancasse in casa.

Quando la pasta color di fonda cioccolata era pronta, la si metteva nelle forme; e queste erano padelle e basse pignatte che poi venivano messe nel forno della famiglia. E il forno, l’antico forno di mattonelle rosse già da qualche ora era sotto l’azione del fuoco. Quando il braciere era sodo e compatto e il crepitio si faceva prolungato, era giunto il momento per porvi la pasta. Quindi, per tutta la notte, vi rimanevano a cuocere le numerose torte che appartenevano a più famiglie. Tradizione, purtroppo, anche questa che va scomparendo; e la torta di pane, sana e gustosa, resta quasi solo un nostalgico ricordo.

Però San Barnaba quassù, nel montano paese, all’ombra dei colossali castagni, sa ancora parlare all’anima della gente. Sicché ancora si «suona di torta» e la dolce leccornia ancora fa la sua apparizione nel giorno della solennità.

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Ma nel mese di giugno non soltanto si celebra la festa in onore di San Barnaba, Santo che è venerato oltre a Bidogno, a Pazzallo, a Brugnasco di Airolo, a Chiavasco in val Malvaglia, a Camperio sulla via che porta al Lucomagno, dove esistono piccoli e artistici oratori, mentre pure un santuario in onore del Santo si annovera a Tarnolgio sopra a Faido, in unione a San Matteo.

Altri Santi, ai quali la nostra gente si rivolge con preghiere e suppliche, ha il mese che consideriamo. Il 13 giugno, Infatti, si venera Sant’Antonio da Padova: a questo santo Taumaturgo sono dedicate numerose chiese nel nostro Cantone; tra queste ricordiamo i santuari di Gerso, di Cabbio, di Balerna, di Caneggio, di Morcote, di Brontallo. di Val Bavona, di Campo Valle Maggia, di Magadino, d’Anzonico, d’Ossasco, di Cavergno.

Nel 1865 i balernitani erigevano l’oratorio dedicato al Santo sul colle chiamato «Ceresa» che sta a cavallo tra Balerna e Novazzano. È un santuario che accomuna semplicità di linee e pregi rari che derivano dogli affreschi dell’atrio, in numero di quattro, e sono opera di un valente pittore di Tremona, Antonio Rinaldo. Datano del 1860. La statua di Sant’Antonio si -trova in una nicchia dell’altare; la popolazione, ogni venticinque anni, la porta in -processione; allora la festa assume un tono di calda austerità, di solennità senza pari.

Altra festività sempre cara al cuore della nostra gente è la festa di San Giovanni che cade il 24 di giugno; con particolare grandiosità la si celebrava a Contone, paesello ai piedi del Monte Ceneri. Tra le costumanze di un tempo ricorderemo quella della raccolta della camomilla in onore del Santo.

Ma ancora dobbiamo menzionare la festa di San Pietro e Paolo; essa viene celebrata il 29 giugno; carattere In solito assume in talune località tra le quali citeremo Bellinzona, Vira, Biasca, Quinto, Gravesano.

Quando queste sagre si succedono sul taccuino, ecco che l’aria che soffitta paesi e regioni si fa d’un tratto trasparente: è l’aria domestica, di casa, che viene raggiunta da attimi di quieta pensosità, vivificata dal sentimento religioso che sempre è desto tra la popolazione nostra e nei Santi vede i suoi protettori, i personaggi che sanno dare il conforto, la luce e la speranza, soprattutto nei giorni meno propizi che la vita ci riserva.

E ogni cuore esulta; le processioni che vengono tenute nei giorni della solennità hanno e recano un particolare senso di gioia e di purezza; e mentre la statua del Santo patrono viene portata a spalla dagli uomini sotto il baldacchino sgargiante di drappi e di veli, il canto delle litanie si fa coro, voce che emana dai cuori in letizia.

È questo, del culto del Santi, un peculiare aspetto del nostro paese in cui la fede è luce vivida che alimenta una perenne fiamma.

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