Tratto da “Illustrazione Ticinese” del 18 novembre 1933
In un archivio privato ho trovato la seguente cronaca, scritta fin dal 1855 dal defunto arch. Carlo Quirici. Credo opportuno trascriverla, perchè, pur tralasciandone alcuni squarci, essa getta alquanta luce sui costumi pressoché
medioevali che si riscontravano ancora nei nostri paesi, nel secolo scorso.
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Sul principio dell’anno 1812, un certo Pietro Gianini di Alburno (frazione di Corticiasca) soprannominato Pedron, uomo fortissimo e violento, nonché provetto ramaio di famiglia distinta, con negozio in Milano, per spirito di partito, s’era impegnato con un altro degno compagno, di uccidere un certo Chicherio di Bellinzona e Giovanelli Vincenzo di Bidogno, aspiranti alla carica di giudice.
Un giorno tirò un colpo di fucile, con due palle unite a catena, a metà circa della porta d’ingresso della casa Giovanelli, credendo di colpire così il detto Vincenzo che si trovava vicino alla porta, internamente.
Il colpo falli. La giustizia si occupò subito del fatto e mandò tosto il capitano Rodolfo Inderbitz di Altorf, uomo aitante e coraggioso, con due birri, per arrestare il Pedron e il di lui compagno Lepori di Roveredo, detto Bracch, i quali, in quel giorno, si trovavano casualmente nella casa del parroco.
Sentendo picchiare alla porta col martello di ferro, il parroco mandò ad aprire il suo domestico. Il capitano, udendo scorrere il catenaccio che chiudeva la porta dall’interno, ordinò ad un birro di tirare una fucilata all’altezza del petto, credendo così di uccidere lo stesso Pedron; ma avendo il birro tirato un po’ alto, ed essendo il domestico piccolo di statura, la palla gli rasentò la testa e andò a scheggiare una trave in faccia alla porta.
Il Pedron allora, intuendo che l’intenzione dei birri era di prenderlo vivo o morto, fuggì dall’interno, sulla volta della chiesa, attigua alla casa parrocchiale, e da quella, per un buco, si rifugiò sul campanile. Ma la stessa via l’aveva
già presa il Parroco, il quale, invaso dal terrore e credendo che i ladri stessero per svaligiargli la casa, era salito sin sul cornicione posto al di sopra del piano delle campane, ove rimase appollaiato fino al mattino seguente.
Il Bracch, compagno del Pedron, rimasto solo, 10 seguì nella fuga; ma il Pedron, già giunto al piano delle campane, sentendo salire per la scala di legno un uomo, pensò che fosse un birro, e nell’oscurità, gli assestò sul capo un terribile
colpo col calcio del suo corto trombone, così che il povero Bracch, rotolò tramortito sino al piano inferiore, gridando: «Oh Pedron, tô mè mazzò! » E sentendosi vicino a morire, chiedeva il parroco per l’estrema unzione.
Il Pedron, dall’alto del campanile chiamò i popolani che erano accorsi al tocco delle campane suonate dal parroco nel salire in cima alla torre, e fece loro intendere che, avendo ferito a morte in fallo il suo compagno, gli mandassero il parroco. Questi, che aveva udito tutto dall’alto del suo rifugio, fu preso da tale spavento che non volle scendere, temendo della vita. Così nella notte, il Bracch morì abbandonato da tutti, chiedendo nell’agonia l’assoluzione di tutti i suoi peccati.
All’alba, i popolani videro il povero parroco rannicchiato sul cornicione e intirizzito dal freddo, e lo invitarono a scendere. Anche il Pedron lo assicurò non temesse di nulla. Finalmente, egli si calò al piano delle campane, ove il Pedron con un ginocchio a terra gli baciò la veste, e sceso al piano inferiore, scavalcò il cadavere del Bracch, al quale diede la benedizione.
Il Pedron restò tutto il giorno sul campanile, assediato dai birri e dai volonterosi cittadini, armati di fucili e che non si arrischiavano a salirvi, temendo fare la fine del povero Bracch.
Una sorella del Pedron, maritata a Bidogno, si portò alta mattina in un campo situato a nord del campanile, e che si trova a 8 metri circa di altezza dal pian terreno della torre, e fingendo di curiosare, gridò all’assediato, nel furbesco dialetto montano: « German, branca sta tibiessa che t’avarè ghîa » (fratello prendi questo pane che avrai fame) – e gli gettò con forza e destrezza il pane, che il Pedron potè raccogliere dal primo finestrone e sfamarsi per quel giorno.
Anche nella seconda notte, continuò l’assedio al campanile e furono accesi dei fuochi. Il secondo giorno, la sorella, scoperta, non potè soccorrere il fratello. Perciò, questi, affamato, uccise il fedele cagnolino che l’aveva seguito, e ne fece abbrustolire la parte posteriore sul fuoco che aveva acceso con schegge tolte al congegno a tasti per il suono delle campane a festa.
Infine il digiuno lo consigliò di venire a patti col capitano dei birri: fu convenuto che egli facesse scendere al di fuori del campanile il temuto trombone, servendosi della corda di una campana, poi si arrendesse, assicurandogli salva la vita.
Infatti, calato il fucile, il Pedron si consegnò ai birri. Mangiò, poi legato, fu condotto a Bellinzona nella prigione del castello d’Uri, dalla quale, dopo pochi giorni, riuscì a fuggire rifugiandosi sul milanese, a Concorezzo prima, poi a Piacenza, ove rimase a lavorare da ramaio per molti anni.
Ritornato in patria in età molto avanzata, la giustizia non si occupò più di lui. Egli discendeva dal suo romito villaggio, a Bidogno, nelle case più agiate, ove fu sempre accolto benevolmente, non sembrando vero a quella popolazione buona e pacifica, di vedere così quieto e umiliato quell’omone tanto temuto.
L’ultima volta che si recò a Bidogno, sentendosi mancare le forze, volle confessare tutti i suoi peccati, e il Parroco gli impose per penitenza, di chiedere perdono in chiesa a tutto il popolo.
Infatti il giorno dopo, ch’era domenica, prima della celebrazione della messa, il Pedron si presentò al popolo dal presbiterio, e tenendosi appoggiato alla balaustra, rizzatosi più che potè, con la barba lunga e candida, disse a voce alta a rauca : « Popol de Bidögn, av domande perdon de tucc i stremizze ca vo face teui sù e di pecad co facc in dro pais contra i comandamente de Dio. Am perdonèv ? »
I fedeli stupefatti e commossi, risposero ad alta voce: « Si, si, am vè perdona in nome de Dio ! setèv giù, povro vegg. »
Allora il vecchio ricevette la benedizione dal parroco e stette inginocchiato ai piedi dell’altare per tutta la durata della messa, appoggiato con le due mani al bastone.
Non scese più a Bidogno e mori tre anni dopo. Fu trasportato alla tomba, adagiato sul cataletto, scoperto, come s’usava a quei tempi, col crocifisso sul petto e le mani legate col rosario, seguito da tutta la popolazione pregante pace all’anima sua.