Le Origini dell’Oratorio della Madonna delle Grazie
chiamato comunemente della Beata Vergine della Maestà a Bidogno
Quando nella valle la primavera sciorinava al vento e al sole le bandiere, Martino Quirici di Bidogno lasciava il paese in lieta comitiva e con la cassetta dei ferri da muratore a tracolla, si recava all’estero in cerca di lavoro e di pane. Era consuetudine allora, come in parte oggidì, espatriare ai primi tepori per poi rivedere la famiglia soltanto quando le campane annunciavano solennemente la novena del S. Natale. Ritornavano allora gli emigranti stanchi sì, ma contenti della stagione compiuta, per trascorrere alcuni mesi in seno ai loro cari, abbellire sempre più con il frutto dei sudori le loro abitazioni ed il paese che amavano profondamente. L’andata, a piedi per la maggior parte poiché i mezzi di comunicazione erano assai scarsi e costosi, non era così irta di difficoltà come il rimpatrio. In quest’ultimo caso, il più delle volte, dovevano affrontare il pericolo grave dei briganti armati di coltellacci e di pistola, insediati in antri e boschi, vicino ai sentieri, alle strade solitarie, i quali volevano a tutti i costi, nulla risparmiando, impossessarsi del patrimonio che i bravi lavoratori portavano ai loro villaggi. Vi erano inoltre trabocchetti e tranelli di ogni sorta, sì che anche il più accorto, spinto spesso dal bisogno di nutrimento e di riposo, vi cadeva senza saperlo e ne faceva le spese perdendo beni e vita. Fu appunto in una di queste insidie che venne a trovarsi nel mese di dicembre del 1607 sulla via del ritorno a Bidogno, Martino Quirici. Contava allora quarant’anni e li portava davvero molto bene. Era alto e robusto, un vero montanaro tagliato a tutti i disagi e a tutte le fatiche, il volto completamente rasato, il che era eccezione in quei tempi di baffi e barbe folte, la testa leggermente calva con giro di capelli corvini, gli occhi sereni nascosti a metà dalle palpebre, il passo agile ed elegante, il parlare distinto, ma per nulla ricercato. Cristiano tutto d’un pezzo, nutriva per il culto e per le manifestazioni religiose il più fedele attaccamento. Viaggiava dunque da due giorni, quando la notte lo sorprese sulle sponde di un largo braccio di lago, monotono e tranquillo, nelle cui acque si specchiava, alla luce lunare, una casa alta, silenziosa, con poche finestre illuminate debolmente, che, dall’insegna, arguì trattarsi di ristorante con alloggio. Pareva che una voce misteriosa lo spingesse a chiedere ospitalità più oltre, ma la stanchezza e la fame che lo rodeva lo fecero desistere da tale proposito. Si passò una mano sulla fronte come per scacciare ogni diffidenza, ed entrò. L’accolse un vasto e ben riscaldato locale illuminato da una grande lanterna a olio che tingeva di strisce giallastre tutto l’interno, con alcuni tavoli accostati al muro, bottiglie, bicchieri, quadri ovunque, un solo avventore con un boccale di vino davanti, ed un camino patriarcale, nei vani del quale stavano scaldandosi uno di fronte all’altro, un uomo ed una donna, che non tardò a riconoscere per i padroni. Al rumore dei suoi passi sul pavimento in liscia pietra e al risuonar delle parole di saluto, l’oste e l’ostessa si scossero e gli furono vicini. Con modi insinuanti l’invitarono a sedersi, chiedendogli cosa desiderasse. Martino si tolse dalle spalle il voluminoso sacco di pelle che depose accanto alla gamba del tavolo, e, ponendosi a sedere, rispose: – Una modesta cena e un buon letto! Da due giorni viaggio; ho le ossa rotte, i piedi gonfi, sono intirizzito dal freddo e sento un estremo bisogno di ristoro e di riposo. Conto, partire di buon mattino per raggiungere prima di Natale la mia famiglia che abita lontano! E in sì dire fece un largo gesto con la mano, come per accennare a molte ore di qui.
Gli fu servita una cena gustosa e frugale, e notò non senza un certo stupore come l’oste, venuto a sederglisi di fronte, s’interessasse molto della sua provenienza, del suo mestiere, del guadagno, lo squadrasse nel bel vestito e nei tratti signorili con occhi torvi, che cercava di rendere dolci, e parlasse poi, tra una portata e l’altra, a bassa voce con la moglie, una donna dal viso astuto che non guardava mai in faccia ai suoi interlocutori, ma teneva gli occhi continuamente fissi al pavimento. Si meravigliò anche come il gerente gli mescesse continuamente da bere soggiungendo: “Beva, beva, caro signore. Non le farà male, vedrà che lo farà riposare, perché è un vino speciale e soprattutto sincero!” Ma Martino non bevette più del necessario. Terminata la cena si alzò, raccattò il sacco che conteneva i panni ed il ricavo del suo lavoro, ed espresse all’oste il desiderio di recarsi a dormire. Salirono alla luce di una candela – il padrone davanti e lui dietro – due scalette di legno, e percorsero in silenzio un lungo e basso corridoio. Finalmente il proprietario s’arrestò ad un uscio in larice che aprì ma poi chiuse immantinente dopo aver introdotto Martino, lasciandolo senza lume e augurandogli la buona notte. Meravigliato l’ospite ed in preda ai più terribili sospetti, si avanzò lentamente e cautamente nella camera buia. Frugò nelle tasche dove gli venne dato di rintracciare la scatola degli stecchetti di legno solforati allora in uso, ne accese uno e con esso la candela che teneva sempre per ogni occorrenza. Apparve allora ai suoi occhi smarriti una camera assai stretta, squallida, fredda ad una sola finestra, con una sedia e un attaccapanni in un angolo e un letto in legno addossato ad una parete sotto un soffitto in assi con le lenzuola e le federe che mostravano certe chiazze oscure che parevano macchie di sangue. Esterrefatto, tutto comprese, anche perché proprio sopra il letto, sempre al chiarore del lume provvidenziale, non gli fu difficile scorgere, benché celata, fra un’asse e l’altra, una lunga e terribile lama. Era piombato in una casa di assassini! In preda al più grande terrore, si assicurò che la porta fosse chiusa e si portò alla finestra senza inferriata, sperando trovar lì una via di uscita. Ma dovette dichiararsi vinto, perché la stessa era assai alta e dava proprio sul lago, un lago profondo, le cui acque lambivano le fondamenta della casa: un ramo di lago deserto che si nascondeva fra le rive frastagliate e inaccessibili. Si sentì perduto, senza via di scampo, privo di alcun mezzo di difesa, con la morte in agguato. Se la lama l’avesse risparmiato, non sarebbe sfuggito alla sete di oro e di sangue dell’oste, e solo allora comprese il perché di tante raffinatezze sue e della degna consorte. Rivide la sua famiglia lontana, che certo l’attendeva ansiosamente, gli passarono davanti alla mente i suoi teneri angioletti, pensò al suo diletto Bidogno che forse mai avrebbe più avuto la gioia di rivedere, e si sentì agghiacciare il sangue nelle vene. Credette di impazzire. Improvvisamente una meravigliosa luce gli brillò nell’animo sconvolto. Si ricordò della fiduciosa giaculatoria con cui solevano concludere le preghiere sua madre e lui stesso la sera, prima di coricarsi, e al mattino al primo svegliarsi: Mater divinae gratiae ora pro novis! La pronunciò con tutto il suo fervore di credente ed alzando le tremanti braccia verso l’alto nella lugubre camera senza immagini, che aveva certamente raccolto l’ultimo respiro di molti, il cui cadavere era poi stato inghiottito dalle cerulee acque del lago sottostante, invocò l’aiuto di Maria Santissima, promettendo in caso di salvezza, di far erigere a Bidogno, in località da fissarsi, una cappella votiva. Non passò un minuto che alla finestra della stanzaccia udì un leggero ticchettio come di nocche che percotessero i vetri, accorse ansioso ad aprire e, scrutando nelle tenebre della notte, notò ai piedi della muraglia sulle placide acque del lago una barca ed uno sconosciuto barcaiolo che gli sussurrò: “Non temere, sono venuto a salvarti. Annoda le lenzuola e le coperte, calati giù in fretta, non tardare!” Pochi istanti dopo, al chiarore lunare, Martino si calava dalla finestra e posava i piedi sulla barca, che mossa da due potenti remi e guidata da un agile nocchiero, lo portava miracolosamente alla sponda opposta sano e salvo. Il suo salvatore, certamente inviatogli dalla Madonna che aveva accolto la preghiera ardente di un suo figlio devoto nulla volle ricevere e si dileguò sul lago. Allora Martino cadde ginocchioni, ringraziò dal profondo del cuore la Vergine e rinnovò piangendo la sua promessa. In pochi giorni fu a Bidogno, dove ai familiari e ai compaesani stupiti e terrorizzati, narrò ampiamente lo scampato pericolo e il voto fatto. Avrebbe voluto costruire la cappella poco lungi da casa sua ma la Madonna apparsagli (così la tradizione) nel 1608 sullo spiazzo magnifico che domina tutta la Capriasca e dintorni, a sinistra della via che conduce a Corticiasca, a m 851 s.m., lo fece desistere da tale proposito. E Martino, obbediente, la edificò lassù solida e bella, facendovi dipingere da un pittore anonimo la sacra Immagine con la Vergine e il Bambino incoronati, sciogliendo così il suo voto e tramandando ai posteri la sua avventura. Subito dal 1644 in avanti, in conseguenza di altri benefici ricevuti, gli abitanti di Bidogno assunsero il nobile compito di ampliare e adornare la cappella del pio Martino. Il popolo tutto corrispose con ammirevole zelo, e migliaia di lire furono raccolte, che servirono poi a ingrandire la piccola edicola che misurava in larghezza poco più di quanto è grande il sacro dipinto senza altare e con solo qualche metro di profondità.
E fu allora che tutti di comune accordo i fedeli della novella parrocchia di Bidogno (così scrive il M.R. Sac. Don Francesco Quirici che fu a Bidogno dal 1639 al 1680), conservando intatta l’Immagine e facendo propria la speciale devozione, erigevano, incorporando la cappella votiva, l’oratorio che sin dal principio denominarono “della Maestà” e dedicarono alla Madonna delle Grazie. L’oratorio comprendeva allora l’attuale navata centrale con due cappelle o bracci laterali, il campanile, escluso il coro, e pare sia stato terminato nel 1646 e aperto al culto sulla fine del 1653. L’Immagine fu dipinta da un ignoto pittore della Val Solda e più tardi fu aggiunta in tempera a sinistra della Madonna, la figura di San Giuseppe. Il compianto M. R. Sac. Don Giuseppe Carò da Chiasso per lungo tempo a Bidogno, nel 1913, faceva arretrare la cappella–altare, prolungava i due bracci laterali, che conferivano al tempio la forma di croce greca, al livello della facciata rendendolo più maestoso e più capace. L’11 marzo 1756 quando a Bidogno si trovava il M. R. Sac. Don Costante Sarinelli (1723–1758) mediante pubblico atto si decideva, sulla ripida salita che dalle ultime case del paese conduce all’oratorio, la costruzione delle cappelle della Via Crucis, che nel 1909 vennero restaurate. Oggi l’oratorio nella bella veste architettonica, con l’affresco raffigurante l’Annunciazione sopra il portale d’ingresso con la data del 1646, con il gentile porticato e l’assai ampio sagrato, al rezzo del fiume Bello, è meta di devozione sentita, come lo attestano i quadri per grazie ricevute, che si ammirano assai ben conservati nella modesta sagrestia. Ma esso è anche ritrovo meraviglioso di diporto per coloro che al desiderio di visitare angoli artistici e storici sanno affiancare la gioia di ammirare uno dei più suggestivi panorami in uno scenario dei più grandiosi.
PLINIO SAVI
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