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Articoli di giornale Notizie Parrocchia di Bidogno

Parocchia online

Rivista di Lugano 10 dicembre 2021

Presentazione della Via Crucis, di chiese e oratori, possibilità di consultare l’albo e il bollettino parrocchiale, ma anche ammirare una galleria fotografica, riservare la sala Arcobaleno per eventi privati (riunioni, compleanni…) e molto ancora. È insomma ricco e interessante il nuovo sito della Parrocchia di Bidogno-Corticiasca, online dagli scorsi giorni. «Un portale ancora in divenire – rileva Alessandro Bader, neo presidente del Consiglio parrocchiale di Bidogno – Alcuni contenuti saranno infatti disponibili in futuro».

Le pagine sono consultabili all’indirizzo parrocchiadibidogno.ch.

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Articoli di giornale Bidogno Chiesa Parrocchiale Storia

L’assedio del campanile di Bidogno

Tratto da “Illustrazione Ticinese” del 18 novembre 1933

In un archivio privato ho trovato la seguente cronaca, scritta fin dal 1855 dal defunto arch. Carlo Quirici. Credo opportuno trascriverla, perchè, pur tralasciandone alcuni squarci, essa getta alquanta luce sui costumi pressoché
medioevali che si riscontravano ancora nei nostri paesi, nel secolo scorso.

***

Il campanile di Bidogno

Sul principio dell’anno 1812, un certo Pietro Gianini di Alburno (frazione di Corticiasca) soprannominato Pedron, uomo fortissimo e violento, nonché provetto ramaio di famiglia distinta, con negozio in Milano, per spirito di partito, s’era impegnato con un altro degno compagno, di uccidere un certo Chicherio di Bellinzona e Giovanelli Vincenzo di Bidogno, aspiranti alla carica di giudice.

Un giorno tirò un colpo di fucile, con due palle unite a catena, a metà circa della porta d’ingresso della casa Giovanelli, credendo di colpire così il detto Vincenzo che si trovava vicino alla porta, internamente.

Il colpo falli. La giustizia si occupò subito del fatto e mandò tosto il capitano Rodolfo Inderbitz di Altorf, uomo aitante e coraggioso, con due birri, per arrestare il Pedron e il di lui compagno Lepori di Roveredo, detto Bracch, i quali, in quel giorno, si trovavano casualmente nella casa del parroco.

Sentendo picchiare alla porta col martello di ferro, il parroco mandò ad aprire il suo domestico. Il capitano, udendo scorrere il catenaccio che chiudeva la porta dall’interno, ordinò ad un birro di tirare una fucilata all’altezza del petto, credendo così di uccidere lo stesso Pedron; ma avendo il birro tirato un po’ alto, ed essendo il domestico piccolo di statura, la palla gli rasentò la testa e andò a scheggiare una trave in faccia alla porta.

Il Pedron allora, intuendo che l’intenzione dei birri era di prenderlo vivo o morto, fuggì dall’interno, sulla volta della chiesa, attigua alla casa parrocchiale, e da quella, per un buco, si rifugiò sul campanile. Ma la stessa via l’aveva
già presa il Parroco, il quale, invaso dal terrore e credendo che i ladri stessero per svaligiargli la casa, era salito sin sul cornicione posto al di sopra del piano delle campane, ove rimase appollaiato fino al mattino seguente.

Il Bracch, compagno del Pedron, rimasto solo, 10 seguì nella fuga; ma il Pedron, già giunto al piano delle campane, sentendo salire per la scala di legno un uomo, pensò che fosse un birro, e nell’oscurità, gli assestò sul capo un terribile
colpo col calcio del suo corto trombone, così che il povero Bracch, rotolò tramortito sino al piano inferiore, gridando: «Oh Pedron, tô mè mazzò! » E sentendosi vicino a morire, chiedeva il parroco per l’estrema unzione.
Il Pedron, dall’alto del campanile chiamò i popolani che erano accorsi al tocco delle campane suonate dal parroco nel salire in cima alla torre, e fece loro intendere che, avendo ferito a morte in fallo il suo compagno, gli mandassero il parroco. Questi, che aveva udito tutto dall’alto del suo rifugio, fu preso da tale spavento che non volle scendere, temendo della vita. Così nella notte, il Bracch morì abbandonato da tutti, chiedendo nell’agonia l’assoluzione di tutti i suoi peccati.

All’alba, i popolani videro il povero parroco rannicchiato sul cornicione e intirizzito dal freddo, e lo invitarono a scendere. Anche il Pedron lo assicurò non temesse di nulla. Finalmente, egli si calò al piano delle campane, ove il Pedron con un ginocchio a terra gli baciò la veste, e sceso al piano inferiore, scavalcò il cadavere del Bracch, al quale diede la benedizione.

Il Pedron restò tutto il giorno sul campanile, assediato dai birri e dai volonterosi cittadini, armati di fucili e che non si arrischiavano a salirvi, temendo fare la fine del povero Bracch.

Una sorella del Pedron, maritata a Bidogno, si portò alta mattina in un campo situato a nord del campanile, e che si trova a 8 metri circa di altezza dal pian terreno della torre, e fingendo di curiosare, gridò all’assediato, nel furbesco dialetto montano: « German, branca sta tibiessa che t’avarè ghîa » (fratello prendi questo pane che avrai fame) – e gli gettò con forza e destrezza il pane, che il Pedron potè raccogliere dal primo finestrone e sfamarsi per quel giorno.

Anche nella seconda notte, continuò l’assedio al campanile e furono accesi dei fuochi. Il secondo giorno, la sorella, scoperta, non potè soccorrere il fratello. Perciò, questi, affamato, uccise il fedele cagnolino che l’aveva seguito, e ne fece abbrustolire la parte posteriore sul fuoco che aveva acceso con schegge tolte al congegno a tasti per il suono delle campane a festa.

Infine il digiuno lo consigliò di venire a patti col capitano dei birri: fu convenuto che egli facesse scendere al di fuori del campanile il temuto trombone, servendosi della corda di una campana, poi si arrendesse, assicurandogli salva la vita.

Infatti, calato il fucile, il Pedron si consegnò ai birri. Mangiò, poi legato, fu condotto a Bellinzona nella prigione del castello d’Uri, dalla quale, dopo pochi giorni, riuscì a fuggire rifugiandosi sul milanese, a Concorezzo prima, poi a Piacenza, ove rimase a lavorare da ramaio per molti anni.

Ritornato in patria in età molto avanzata, la giustizia non si occupò più di lui. Egli discendeva dal suo romito villaggio, a Bidogno, nelle case più agiate, ove fu sempre accolto benevolmente, non sembrando vero a quella popolazione buona e pacifica, di vedere così quieto e umiliato quell’omone tanto temuto.

L’ultima volta che si recò a Bidogno, sentendosi mancare le forze, volle confessare tutti i suoi peccati, e il Parroco gli impose per penitenza, di chiedere perdono in chiesa a tutto il popolo.

Infatti il giorno dopo, ch’era domenica, prima della celebrazione della messa, il Pedron si presentò al popolo dal presbiterio, e tenendosi appoggiato alla balaustra, rizzatosi più che potè, con la barba lunga e candida, disse a voce alta a rauca : « Popol de Bidögn, av domande perdon de tucc i stremizze ca vo face teui sù e di pecad co facc in dro pais contra i comandamente de Dio. Am perdonèv ? »

I fedeli stupefatti e commossi, risposero ad alta voce: « Si, si, am vè perdona in nome de Dio ! setèv giù, povro vegg. »

Allora il vecchio ricevette la benedizione dal parroco e stette inginocchiato ai piedi dell’altare per tutta la durata della messa, appoggiato con le due mani al bastone.

Non scese più a Bidogno e mori tre anni dopo. Fu trasportato alla tomba, adagiato sul cataletto, scoperto, come s’usava a quei tempi, col crocifisso sul petto e le mani legate col rosario, seguito da tutta la popolazione pregante pace all’anima sua.

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Articoli di giornale Bidogno Storia

Matrimonio pittoresco celebrato a Bidogno

Tratto da “GAZZETTA TICINESE” del 28 ottobre 1963

Sabato a Bidogno venne celebrato un matrimonio di eccezionale pompa pure nella sua semplicità, pit­toresco per l’impostazione che richiama forse i matrimoni signorili dei tempi dell’Ottocento. Infatti l’ing. Candido, figlio del Si­gnor Storni, impresario di Bidogno, che ha un complesso industriale edile a Meilen, si sposava con un’avvenente signorina, Maria Maddalena Butti e, fedele alla terra natale e alla sua Valle Capriasca, ha voluto celebrare il rito nuziale nella semplice chiesetta della Madonna delle Grazie alla quale dà accesso la bel­la e pittoresca via Crucis di Bido­gno. Già di buon mattino alcuni in­caricati procedevano a scaricare da un treno giunto dalla Svizzera interna, ventidue cavalli tra i quali quat­tro bianchi, con i relativi landò. Il corteo con la carrozza nuziale addobbata in bianco, partiva dalla Casa Torre di Cassarate per poi giungere a Bidogno dopo aver percorso la strada per Tesserete per giungervi alle 16.30. Festosa accoglienza riservata al lungo e insolito corteo — snodatosi sotto una pioggia di confetti — la popolazione del paese montano; la cerimonia delle nozze aveva poi luo­go nel Municipio in forma civile e nella chiesetta già citata in forma religiosa. Gli sposi offrivano poi il pranzo a tutta la popolazione delle frazioni di Case Ferretti, Casa Nuova e Ventiga, pranzo preparato al Ristorante Camoghè di proprietà del signor Mario Storni. I cavalli e i landò riprendevano quindi la via verso Lugano e i par­tecipanti eseguivano un giro sul la­go con battello speciale. La sera all’albergo Müller In Castagnola veniva servito agli sposi e ai parenti il banchetto nuziale. La singolare, caratteristica e vivace cerimonia venne ripresa dalla nostra TV e da numerosi fotoreporter.

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Articoli di giornale Bidogno Divina Maestà Storia

L’oratorio della MAESTÀ a BIDOGNO

Tratto da “Illustrazione Ticinese” del 29 settembre 1956

Quando arrivate a Bidogno, nell’Alta Capriasca, abbandonate, all’entrata del paese, la strada car­rozzabile per Corticiasca (e che da pochi anni, operato il congiungimento con Scareglia, per­mette di compiere il giro completo della Valle) e volgete i vostri passi verso la piazza, passate sotto un angusto portico e seguite l’antica via che, prima della carrozzabile, conduceva al vil­laggio di Corticiasca in mezz’ora di cammino tra boschi di castagni.

Ecco davanti ai vostri occhi, una larga, ripida strada affiancata da due scalinate che sale verso il cielo. Fan da guardia ai margini, le 14 cappelle ritte e solide come soldati. Al vertice del poggio domina una chiesa, un sobrio ed accogliente por­tico, un piccolo vivace campanile. State ammi­rando la caratteristica Via Crucis e l’Oratorio della Maestà di Bidogno.

L’erba ha steso un sottile, soffice tappeto, che attutisce i passi, tra il selciato dell’ampia gradi­nata. Mentre salite, vi par di accedere a un trono e il paesaggio vi appare sempre più vasto e va­riato.

La tradizione narra che nel 1607 certo Mar­tino Quirici ottenne una grazia dalla Madonna e fece voto di costruire una cappella presso casa sua, in quel di Bidogno. Vuolsi che la Madonna apparve al beneficato sul magnifico poggio che domina la Capriasca, a quota 850 a nord del paese, ove attualmente sorge l’Oratorio. Il Qui­rici fece erigere, sul luogo dell’apparizione, una piccola Cappella, nel 1608, completandola con un dipinto della Vergine col bimbo in braccio, di un anonimo pittore. Nel 1644 i fedeli e il par­roco di Bidogno, allora il Sac. Francesco Qui­rici, raccolsero i fondi e iniziarono la costru­zione, al posto della piccola cappella, di un Oratorio. Sull’altare posero il primitivo dipinto che è ancora quello che vi si conserva tutt’oggi. L’Oratorio venne denominato della Maestà e dedicato alla Madonna delle Grazie. La costru­zione, a forma di croce greca, comprendeva l’at­tuale navata centrale, due bracci laterali, il cam­panile e venne aperta al culto nel 1653. Gli or­namenti di stucco dell’altare furono opera dello stuccatore Galeazzo Riva. Nel 1711, parroco il sac. Giovanni Maria Muschi, fu costruito l’altare di mar­mo, opera di P. G. Rossi di Arzo, completato nel 1846 col tabernacolo e i due gradini in marmo. La costruzione del porticato davanti al­l’oratorio, con colonne e lastre di granito, ini­ziata nel 1726, terminò due anni dopo. Certo Enrico Sarinelli di Bidogno, morto nel 1717, la­sciò i suoi beni per dotare l’Oratorio di una cam­pana che, secondo i suoi desideri avrebbe do­vuto pesare 326 chili. Ma, ahimè, l’eredità era gravata da parecchie passività e permise l’acqui­sto, nel 1728, di una campana di ben più mo­deste proporzioni. Il campanile era piuttosto piccolo e nel 1744 i parrocchiani prestarono gratuitamente l’opera loro per innalzare un’adat­ta torre campanaria, a fianco dell’oratorio verso ovest, ricevendo in compenso razioni di pane, formaggio e vino…

Reggeva la parrocchia il sac. Carlo Costante Sarinelli, ed a lui si deve l’iniziativa di aver ini­ziato la costruzione della magnifica Via Crucis, lungo la ripida «risciada» che conduce dal paese all’Oratorio.

I maggiorenti della parrocchia, riuniti nel marzo del 1756 si impegnarono con atto pubbli­co, ad erigere le cappelle e a farle dipingere en­tro due anni, a patto che il comune assumesse l’onere di costruire una strada larga e di curarne la manutenzione. La forma, la misura, la distan­za delle cappelle, e il progetto della strada fu­rono subito allestiti e ogni famiglia si sobbarcò le spese per la costruzione di una cappella. Anche il parroco figura tra le persone che contribuirono al compimento delle opere. Ma non ebbe la consolazione di veder condurre in porto la Via Crucis, a cui tanta passione aveva dedi­cato, poiché morì nel settembre del 1758.

Il sac. Giacomo Galletti, parroco dal 1815 al 1861 (e deputato al Gran Consiglio per il partito liberale al tempo della soppressione dei conventi) costruì il retrocoro dell’Oratorio. La sistemazione dell’Oratorio come è attualmente è opera del sac. Don Giuseppe Caro che resse Bidogno dal 1894 al 1924. Egli fece aggiungere le due navate laterali, aumentando la capienza, della chiesina e sistemò a nuovo il presbiterio, il campanile e il coro. Di sua iniziativa fece ridi­pingere le cappelle della Via Crucis e arretrare un po’ l’altare, trasportandolo tutto d’un pezzo. I restauri durarono dal 1909 al 1913 e lo stesso parroco collaborò con la somma di Fra. 3607.

Sul dipinto della Madonna, sull’altare, opera di un ignoto pittore della Val Solda fu aggiunta più tardi, a tempera, la figura di San Giuseppe, non si sa se per colmare il vuoto a fianco della Madonna. Comunque si nota la diversità della pittura.

In sagrestia sette quadri di grazie ricevute stanno a dimostrare la devozione ancor viva de­gli abitanti di Bidogno per la loro Madonna. Le pitture sulle cappelle della Via Crucis sono in gran parte scomparse e solo alcune sono ben conservate. Non erano certamente di gran va­lore. Si pensa, certo quando ci saranno i fondi, di procedere a una nuova rinfrescatura.

Per chi si reca, a piedi, da Bidogno a Corticiasca è d’obbligo passare per questa che è una delle più belle Vie Crucis del Ticino, e sostare un attimo, davanti al piccolo porticato (sotto cui, sul portale, è ben conservato un affresco raffigurante l’Annunciazione, datato del 1646) sul sagrato erboso sorretto da un alto muro, e dominare da questo aereo belvedere tutta la re­gione fino alla pianura Padana.

Sergio Tamburini

(Note storiche gent. concesse dal M. R. Don Giulio Salmina, Parroco di Bidogno)

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Articoli di giornale Bidogno Storia

Piccola guida dei comuni Ticinesi

Tratto da “Illustrazine Ticinese” del 31 luglio 1943

Bidogno

Altitudine: 790 m. s. 1. m.

Estensione: Kmq. 3,87

Popolazione: 429 abitanti

Situazione: A km. 4,5 da Tesserete al quale è unito mediante un servizio automobilistico postale.

Frazioni: Muschi, Rossi, Faretti, Mulino, Rupiaggio e Lupo.

Posta, Telefono, Telegrafo.

Chiesa parrocchiale di San Barnaba, con concerto di 3 campane.

Oratorio della B. V. della Maestà o delle Grazie.

Attività degli abitanti: Agricoltura montana, artigianato e costruzioni edilizie.

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Articoli di giornale Bidogno Carusio Storia

Vivi e morti a Carusio chiedono la strada

Tratto da “Illustrazione Ticinese” del 16 maggio 1953

Carusio, paese dell’Alta Capriasca che amministra­tivamente dipende da Corticiasca, ma che di na­tura è legato a Bidogno per tutte le esigenze della vita quotidiana, si lamenta – e giustamente – di non possedere una strada che lo unisca a questo Comune.

Il traffico da e per Bidogno avviene su un disa­giato sentiero, a volte persin pericoloso, il quale, ad un dato punto, incontra un ponticello di legno che spesso è travolto dal cattivo tempo.

Per chiedere la costruzione della già da tempo progettata strada, perlomeno di carattere agricolo, gli abitanti di Carusio mostrano alle autorità ed ai Ticinesi tutti questa, invero sconfortante, visione di come avviene un funerale nel loro paese.

La bara dev’essere portata a mano per quaran­tacinque minuti d’impervio sentiero, passando per tratti dove un piede messo in fallo può costare la vita. Si pensi, d’inverno o in giornate di tempo av­verso, quale difficoltà incontra il funebre accompagnamento per raggiungere il Cimitero di Bi­dogno!

Effettivamente, a Carusio, se la vita quotidiana non è facile, anche la morte è dura.

Giustizia vuole che tali deplorevoli condizioni siano eliminate e che Carusio abbia finalmente il suo congiungimento stradale (che del resto non mi­surerebbe nemmeno due chilometri) con Bidogno.

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Articoli di giornale Chiesa Parrocchiale San Barnaba Storia

Messi in luce gli affreschi della chiesa di San Barnaba

Tratto da “GAZZETTA TICINESE” del 12 luglio 1966

Chi avrebbe pensato che la chie­sa parrocchiale di San Barnaba celasse, sotto la coltre di calce, pre­ziosi affreschi che si possono far ri­salire verso il 500? Essi sono venu­ti alla luce non tanto tempo fa e si è dato mano a metterli in evidenza nel loro splendore durante l’inver­no scorso. Sono così stati messi in rilievo gli affreschi della volta e anche quelli ai lati dell’altare. Un lavoro pregevole è stato fatto ed è stata opera da certosino, al fine di non guastarli. La Chiesa si presenta così con un nuovo volto e ciò che è da mettere in evidenza si presenta con questi ottimi dipinti che, per tanti decen­ni, se non addirittura per secoli, fu­rono nascosti e di conseguenza igno­rati.

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Articoli di giornale Bidogno San Barnaba

Le sagre di giugno

Tratto da “AZIONE” Settimana dal 12 al 18 giugno 1958 – N. 24 • 6 pagine

Il mese di giugno è il periodo stagionale dell’anno in cui esplodono, con i colori morbidi del cielo e della natura, i primi veri calori. Di solito dovrebbe essere cosi; anche se poi, magari, il maltempo con temporali e nebbie può venire a negare questa nostra affermazione. Ad ogni modo, giugno è mese in cui i primi frutti, e alludiamo naturalmente alle ciliege, allietano i mercati cittadini. Oltre ad avere i suoi aspetti pittoreschi di verdure e di frutta, giugno conta talune caratteristiche sagre che, sem­pre, hanno il potere di richiamare l’attenzione della gente e il nostro vivo interesse.

Incominceremo dalla sagra paesa­na che ha luogo e si celebra nel montano villaggio di Bidogno, dell’alta Val Capriasca, nella prima decade del mese e precisamente il giorno undici. È festa che ha le sue parti­colari attrattive, modeste, ma sin­ cere e sentite. Per più giorni la festività viene annunciata con il suono delle campane, gioioso canto che si ripercuote dentro e fuori la valle, verso sera. Le donne si danno da fare ad abbellire di verde le case, ad appendere ramoscelli freschi e fiori di campo tra le suppellettili di rame che ornano la parete della cucina oppure il camino. E quando la vigilia della festa giunge, ancora una volta terona l’usanza che dura ormai da secoli: si cuoce in pignatte lar­ghe e basse la torta di pane abbondantemente nutrita di cedro, di uva passa, di cacao.

Ancora oggi resiste l’uso di accen­dere quel forni di salda memoria e che servivano a più famiglie delle diverse frazioni del paese, quando il pane lo si faceva in casa. Ogni massaia appronta due o tre « padelletti », come si dice lassù, di pasta di torta, che poi rimarrà nel forno a cuocere durante l’intera notte precedente la festa.

La chiesa viene parata con sten­ dardi e tele rosse e gialle, in segno di giubilo. Ogni famiglia mette in tavola per il pranzo qualche cosa di più, poiché san Barnaba la proteggerà per iI resto dell’anno. Talvolta, per questa sagra, si preparava anche una recita e allora nella sala l’attesa era grande. Una improvvisata orchestrina deliziava i presenti. San Bar­naba viene venerato, oltre che a Bidogno, anche negli oratori di Pazzallo, di Brugnasoo, in valle Malvaglia, a Camperio, sulla strada per il passo del Lucomagno.

Ma un’altra festività ha poi luogo il 13 giugno: sant’Antonio da Pado­va. Il culto per questo Santo è gran­de e sentito nella nostra terra. Basta pensare che viene venerato e festeggiato a Lugano, a Balerna, a Morcote, in valle di Muggio, in valle Bavona, ad Ossasco, a Cavergno. Sul colle Ceresa, tra Balerna e Novazzano, sorge un oratorio in onore del santo, oratorio che venne benedetto dal vicario del vescovo comense il 13 giugno dell’anno 1688. Il pittore Rinaldi di Tremona affrescò la chie­setta con opere pregevoli verso il 1860. Sant’Antonio è meta ogni an­no di un pellegrinaggio di popolo e la festa vi viene celebrata con gran pompa. La statua del santo ogni venticinque anni è portata In trionfale processione. Il culto per il suo Protettore è radicato nel cuore della gente, la solennità è caratteristica della terra del Mendrisiotto.

Anche le festività in onore di san Luigi riscuotono il devoto Interesse da parte del nostro popolo.

La festa di san Giovanni trova nell’uso la sua esternazione di affetto e di sensibilità. Infatti, la consuetudine vuole anche da noi che alle varie persone di nome Giovanni giungano a mazzi i fiori bianchi dal cuore d’oro, che appunto si chiamato i «fiori di san Giovanni». Nella Capriasca, poi, in questo giorno si rac­coglie la malva, erba medicinale, e anche la camomilla, per farle essicare e, cosi benedette dal Santo, saranno un buon farmaco per calmare i dolori. La notte di san Giovanni veniva celebrata con fasto in Roma antica, dove era d’obbligo fare il tra­dizionale «bagno». Questa usanza venne in seguito abolita, ma resiste ancora qualche reminiscenza, in di­ verse regioni della Penisola e da noi. In certe località nostre si usa uscire la mattina presto per Immergere nella rugiada i piedi scalzi. Infilati negli zoccoli, perché a tutto il corpo venga beneficio e i malanni riman­gano lontani. L’ultima festività del mese di giugno è san Pietro e Paolo, che in di­ verse regioni del paese conosce un culto vasto e profondo. Citeremo solo Biseca e Gravesano. Le campane in quel giorno cantano a festa e ri­cordano i due Santi; nelle chiese parate con solennità si celebra la ricorrenza con riti speciali.

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Articoli di giornale Bidogno San Barnaba Storia

Passeggiate e sagre del mese di giugno

Tratto da “AZIONE” Settimana dal 7 al 13 giugno 1956 – N. 24 • 8 pagina

Chi da Tesserete muove il passo sulla carrozzabile polverosa, ma che si snoda, come per incanto, sotto una galleria ombrosa di fronde di casta­gno, giunge nell’Alta Capriasca, a Bidogno, villaggio che sta come ap­pollaiato sul versante con le sue cen­to case rustiche e cordiali; Bidogno già fu lodato da San Carlo Borromeo che trovò quella terra «bella di erbose pendici». Il paese in quel tempo faceva parte della parrocchia di Tesserete.

Dopo la visita pastorale del 1581, San Carlo emanò il decreto che doveva separare Bidogno e le sue terre da Tesserete e voleva l’erezione della chiesa dedicata a San Barnaba. La chiesa effettivamente venne edificata e l’arcivescovo Arcimboldi la consacrò. Ma l’Istituzione a parrocchia propria, Bidogno l’ottenne solamente nel 1639 da parte di Urbano VIII.

San Barnaba, che cade l’11 giugno di ogni anno, segna per il montano villaggio un giorno di intima e sere­na festa. È la sagra del paese che viene sempre celebrata per lo più la domenica successiva e reca, in tutta la vallata, da Lopagno a Roveredo, a Treggia, a Corticiasca, un’atmosfera insolita di festosità. È una giornata di viva devozione, anche un momento di distensione tranquilla per quella popolazione che, lungo l’ar­co dei mesi e dei giorni delle quattro stagioni, suda e lavora sulla magra terra.

Già qualche giorno prima che giunga la sagra, dal bel campanile che svetta alto nel cielo, dirimpetto alle caratteristiche montagne che circondano la valle, tra le quali si distinguono le Canne d’Organo e, più lontani, il Gazzirola e il Baro puliti sempre e lucidi, si staccano melodiosi i tocchi delle campane a festa. La gente dice che allora si «suona da torta» e la espressione, colorita e di sagace intuito popolano, rende magnificamente l’idea, poiché proprio per San Barnaba – eccettuato Natale – i contadini di quassù si danno da fare a preparare la frugale e nostrana torta di pane, ricca di cedro, di uva passa, di cacao, di pignoli e di zucchero.

Suonare da festa era nei tempi della nostra fanciullezza un’arte: e quest’arte, pur ingenua e alla mano, era prerogativa di giovanotti esperti che avevano dal curato il permesso di salire sulla torre campanaria; verso il tramonto i giovanotti e qualche uomo maturo si pigiavano entro le bifore, quasi come apparizioni irreali sotto un cielo di quarzo levigato, e dalle loro mani fioriva una melodia, un’armonia densa e vellutata di accenti, un andirivieni di note acute e gravi, un ricamo fittissimo di note che ci dava la sensazione che in quei giorni le campane avessero iniziato un loro strano colloquio. E il fraseggio sonoro non aveva sosta, neppure verso la notte, quando le stelle apparivano a illuminare le vie tenebrose del cielo. Sul campanile splendevano le lanterne, e fuochi roteavano di fuori in una sarabanda inconsueta. Era l’annuncio che San Barnaba s’avvicinava, che il giorno dei suoi miracoli si stava per spiegare; quando, poi, la vigilia era giunta, il concerto a festa si faceva di botto imperioso; e i colpi di battacchio della campana maggiore e della piccolina erano interrogativi gravi e dolci, ai quali rispondeva la mezzana, quieta, di una sua voce suasiva che diceva speranza e gioia.

Nel frenetico tinnire di note le massaie iniziavano la preparazione della torta. In casa c’era un gran trambusto in quei beati tempi che sembrano ormai fuori della memoria. La nonna, la prozia, la mamma cominciavano a schiacciare con forza, tra le mani, il pane messo a rammollire in acqua e latte qualche giorno prima. Lo si schiacciava entro ampie marmitte, nelle così dette conche di rame, fino a ridurlo in poltiglia. Quindi, ecco i succosi ingredienti che noi fanciulli, furtivi, cercavamo di carpire dai cartocci messi in disordine sulla tavola o sul cornicione del camino, oppure sulla cassapanca.

Non si faceva economia, allora; ma occorre rilevare che solo in quel giorno dell’anno non si faceva economia. In ogni famiglia appariva qualche cosa di più; già, era San Barnaba che provvedeva e faceva sì che niente mancasse in casa.

Quando la pasta color di fonda cioccolata era pronta, la si metteva nelle forme; e queste erano padelle e basse pignatte che poi venivano messe nel forno della famiglia. E il forno, l’antico forno di mattonelle rosse già da qualche ora era sotto l’azione del fuoco. Quando il braciere era sodo e compatto e il crepitio si faceva prolungato, era giunto il momento per porvi la pasta. Quindi, per tutta la notte, vi rimanevano a cuocere le numerose torte che appartenevano a più famiglie. Tradizione, purtroppo, anche questa che va scomparendo; e la torta di pane, sana e gustosa, resta quasi solo un nostalgico ricordo.

Però San Barnaba quassù, nel montano paese, all’ombra dei colossali castagni, sa ancora parlare all’anima della gente. Sicché ancora si «suona di torta» e la dolce leccornia ancora fa la sua apparizione nel giorno della solennità.

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Ma nel mese di giugno non soltanto si celebra la festa in onore di San Barnaba, Santo che è venerato oltre a Bidogno, a Pazzallo, a Brugnasco di Airolo, a Chiavasco in val Malvaglia, a Camperio sulla via che porta al Lucomagno, dove esistono piccoli e artistici oratori, mentre pure un santuario in onore del Santo si annovera a Tarnolgio sopra a Faido, in unione a San Matteo.

Altri Santi, ai quali la nostra gente si rivolge con preghiere e suppliche, ha il mese che consideriamo. Il 13 giugno, Infatti, si venera Sant’Antonio da Padova: a questo santo Taumaturgo sono dedicate numerose chiese nel nostro Cantone; tra queste ricordiamo i santuari di Gerso, di Cabbio, di Balerna, di Caneggio, di Morcote, di Brontallo. di Val Bavona, di Campo Valle Maggia, di Magadino, d’Anzonico, d’Ossasco, di Cavergno.

Nel 1865 i balernitani erigevano l’oratorio dedicato al Santo sul colle chiamato «Ceresa» che sta a cavallo tra Balerna e Novazzano. È un santuario che accomuna semplicità di linee e pregi rari che derivano dogli affreschi dell’atrio, in numero di quattro, e sono opera di un valente pittore di Tremona, Antonio Rinaldo. Datano del 1860. La statua di Sant’Antonio si -trova in una nicchia dell’altare; la popolazione, ogni venticinque anni, la porta in -processione; allora la festa assume un tono di calda austerità, di solennità senza pari.

Altra festività sempre cara al cuore della nostra gente è la festa di San Giovanni che cade il 24 di giugno; con particolare grandiosità la si celebrava a Contone, paesello ai piedi del Monte Ceneri. Tra le costumanze di un tempo ricorderemo quella della raccolta della camomilla in onore del Santo.

Ma ancora dobbiamo menzionare la festa di San Pietro e Paolo; essa viene celebrata il 29 giugno; carattere In solito assume in talune località tra le quali citeremo Bellinzona, Vira, Biasca, Quinto, Gravesano.

Quando queste sagre si succedono sul taccuino, ecco che l’aria che soffitta paesi e regioni si fa d’un tratto trasparente: è l’aria domestica, di casa, che viene raggiunta da attimi di quieta pensosità, vivificata dal sentimento religioso che sempre è desto tra la popolazione nostra e nei Santi vede i suoi protettori, i personaggi che sanno dare il conforto, la luce e la speranza, soprattutto nei giorni meno propizi che la vita ci riserva.

E ogni cuore esulta; le processioni che vengono tenute nei giorni della solennità hanno e recano un particolare senso di gioia e di purezza; e mentre la statua del Santo patrono viene portata a spalla dagli uomini sotto il baldacchino sgargiante di drappi e di veli, il canto delle litanie si fa coro, voce che emana dai cuori in letizia.

È questo, del culto del Santi, un peculiare aspetto del nostro paese in cui la fede è luce vivida che alimenta una perenne fiamma.

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Il percorso della Via Crucis nel Luganese

Un interessante articolo apparso sulla rivista Terra Ticinese

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Anno 42 N. 1
Il percorso della Via Crucis nel Luganese
Aldo Morosoli

La Via Crucis di Bidogno

In parecchi villaggi è ancora dato vedere quel grande patrimonio religioso e artistico che è la Via Crucis. Lo trovi accostato al sagrato delle chiese o costruito sul dorsale di ripide colline, a richiamare l’origine del Calvario. Cammino carico di testimonianze visive, realizzate e strutturate per essere vissute. Infatti la fatica nel percorrerle legata al pensiero del dolore imposto a Gesù, aveva coniato il detto “è una via Crucis” quando per circostanze varie l’uomo era confrontato a difficoltà di salute, di lavoro o famigliari.
Il raffronto calzava. Resta comunque primordiale l’interpretazione religiosa, vissuta nei secoli scorsi nel periodo nel quale la Chiesa propone all’uomo le settimane della Quaresima.


Conta quattordici cappelle o “stazioni”, la prima segnata dal dipinto della condanna a morte di Cristo. Terminano con la sua deposizione nel sepolcro. Alcune sono belle interpretazioni degli esposti evangelici. Altre tracciate dalla devozione popolare. Un esempio: la cappella con la Veronica che asciuga il viso a Gesù è legata alla tradizione che riporta a noi la memoria del “Sudario” deposto ancora oggi a Torino.


La loro istituzione


Il frate domenicano Rinaldo di Monte Crucis, nel 1294 racconta il proprio impegno salendo al Santo Sepolcro e istituendo varie tappe che chiama “stationen” o fermate che descrivono i vari eventi vissuti e interpretati seguendo il dire evangelico fino alla morte sulla Croce. Questa iniziativa del frate era circoscritta nelle chiese dei religiosi Minori,
Osservanti e Riformati. Successivamente Papa Clemente XII la estese per la Chiesa intera. Decisione che si rivelò prolifera al punto che il Papa successivo – Benedetto XIV –
la limitò in maniera drastica.
Oggi le chiese dispongono di un segno visivo detto “via dolorosa” collocato sulle pareti interne. Una sequenza di 14 oleografie o dipinti murali, altresì di piccole croci in legno, talvolta di buona fattura.

Le nostre Vie Crucis


Sono percorsi che esulano completamente dalle cappelle votive. Presentano un altro contesto religioso. Non una diversificazione di piccole strutture votive, ma altre intenzioni, altro scopo. Opere che segnano in modo specifico il desiderio di una comunità parrocchiale o del cammino francescano come quelle del Bigorio o di Locarno. In esse non c’è segno di Madonne e Santi dipinti o di ex-voto popolari. Unicamente presentano un tema corale, che raggruppa nelle 14 costruzioni l’evento del Calvario.
Questo assieme trova il proprio spazio e apice nel corso della Settimana Santa. Tema religioso di meditazione come ancora avviene a Carona, nella struttura che conduce al piccolo santuario della Madonna d’Ongero. I fedeli con il parroco percorrono meditando il cammino, soffermandosi davanti a ogni cappella. Un viaggio dello spirito

La “salita” di Bidogno

Questo percorso è un’opera unica, definita dagli esperti tra le più significative dell’intera fascia lombarda e a non far dubbio la più bella del Ticino. L’inizio è posto ai piedi delle ultime abitazioni nella parte alta del villaggio. Immersa in un contesto agricolo montano assai tranquillo, conduce il camminatore al culmine della collina dove è stato costruito il piccolo santuario della Divina Maestà.


L’idea di realizzare questo percorso porta l’impronta di una persona semplice, ma dalle grandi intuizioni. La sua mente, ognora rivolta al bene spirituale dei propri parrocchiani, si fonde nel Vangelo interpretato in maniera pratica, visiva, che calza perfettamente per chi faticava sulla montagna soprastante. Il parroco don Carlo Sarinelli il quale nel 1756 coinvolge tredici casati del villaggio. Penso che l’idea, permeata da un briciolo di rivalità tra le famiglie, sia stata accettata con entusiasmo.


La quattordicesima cappella fu finanziata dal Prevosto stesso come risulta dall’atto dell’11 marzo 1756 deposto negli archivi di Bidogno. Grande l’impegno di questo sacerdote che, presago della prossima morte (27.02.1758), operò incessantemente per l’avanzamento dei lavori. La sua mente, dalle grandi aperture umane e artistiche, gioì quando i muratori e i lapicidi deposero gli attrezzi. Il pittore iniziò a disegnare gli affreschi, benedetti con sollievo dal Prevosto poco prima della sua morte.


Notevole l’attenzione rivolta al complesso architettonico, realizzato unicamente in pietra. L’iniziale preparazione del camminamento con una serie di colmature per ottenere un regolare dorsale fu assai impegnativo. La pietra usata sia per le cappelle che per il selciato è tutta locale, ricavata da massi erratici e nel soprastante alveo del fiume Bello.
Importante il contributo di numerosi scalpellini, lapicidi e muratori capriaschesi. Uomini di grandi intuizioni e conoscenze come ben si nota nelle due ultime cappelle poste sul lato sinistro. Le strutture superiori restano dei piccoli capolavori di scultura eseguite da loro.


A distanza di 150 anni, nel 1908, il parroco don Giuseppe Carò in uno al Consiglio parrocchiale, intraprese il primo restauro generale. Altri interventi successivi, specie sulle pitture seguirono a scadenze regolari. Oggi l’opera conta ben 260 anni. L’ultimo restauro iniziato nel 2002 da Adriano Bocchi è risultato oltremodo positivo, specie nell’eliminare la grande umidità. Nel 2004 il pittore Umberto Favini di Milano, rifece integralmente le 14 stazioni oggi protette da lastre di cristallo. Pertanto questa Via Crucis rimane, a non far dubbio, una straordinaria realizzazione eseguita da persone che la motivazione e l’amore le portavano nel cuore.


La Via che porta al Convento del Bigorio


Un’altra opera la troviamo – sempre in Capriasca – sul dorsale che porta al Convento.


Nel 1797 i Religiosi di “Albigorio”, in occasione di una generale riattazione della strada, vollero, seguendo l’esempio di altri luoghi religiosi vicini e lontani, dare a questa viottola una spiccata nota di francescana religiosità, affinché il pellegrino, passando su di essa per recarsi a salutare la Madonna, allontanasse via via dall’animo suo tutte le infinite distrazioni terrene, onde giungere poi al monastero meglio preparato a compiere tutte le pratiche prettamente spirituali. In quell’anno, appunto, si costrussero e si frescarono le prime cappelle così dette della Via Crucis.


È un percorso particolare che diparte da uno spiazzo dove si trova la grande cappella iniziale la cui costruzione data nel 1798. Parte integrante dell’intero cammino, nel suo interno presenta la statua del Cristo in preghiera in grandezza naturale. Quindi inizia la sequenza della cappelle, costruite tutte sul lato destro del sentiero che ha un fondo in
acciottolato, cambia due volte direzione, facilitando l’ardua salita. Un cammino realizzato a gradinate, nello stile che ben si usava in Lombardia, con un susseguirsi di scalini appena accennati a conforto di chi sale. È di alto richiamo meditativo e spirituale, sorretto dalla poesia del bosco e dai grandi silenzi.


Un tracciato altresì percorso il giorno dell’Ascensione dalle tre processioni votive cha partivano da Tesserete, Sala con Ponte Capriasca e da Bidogno. Al termine della via, posta contro il muro del convento si erge la grande croce in legno di castagno che sulla parte superiore porta i simboli della Passione. Croce posata nel 1794 e rifatta a nuovo il
1° novembre 2015. Benedetta dal Vescovo Valerio Lazzeri, è forte richiamo di questo percorso penitenziale.


Tornando alle nostre cappelle, parecchi furono gli interventi pittorici e di restauro. La grande umidità del bosco che le circonda ha contribuito al loro degrado. Gli affreschi iniziali furono sostituiti da 14 altorilievi in ghisa colorata. Quindi nel giugno 1978, per iniziativa di Fra Roberto si progettò il loro risanamento. Scartata l’idea di rifarsi allo stile primordiale intriso di sentimentalismi alienanti, si scelse di inserire in graffito delle motivazioni che si riallacciano al Vangelo e interrogano l’uomo d’oggi nel concreto sui grandi problemi di fondo. Furono perciò coinvolti otto artisti regionali.


Salire questa via suscita pensieri particolari. Riporta alla memoria il vissuto dei cappuccini nel corso epocale di preghiere e penitenze. È stata per parecchi secoli la loro unica strada di accesso. Resta attualmente motivazione di preghiere

Le cappelle di Sant’Abbondio a Gentilino

Nel verde sagrato che circonda la chiesa e l’ossario, sono poste le 14 cappelle. Un percorso architettonico ben proporzionato pur se condizionato dalla ristretta superficie.


C’è un’armonia particolare, che esalta la presenza di questa Via Crucis, costruita nel 1758 “a senso del testamento del fu Francesco Barchetta di Barca, rogato a Milano il 13 dicembre 1749, vennero lasciate alla v. chiesa di S. Abbondio di Gentilino e Montagnola cantonali lire 1000 per la costruzione delle cappelle della Via Crucis in giro al sagrato della suddetta chiesa”.


Indubbiamente una forte testimonianza di fede e di amore per il proprio villaggio da parte del Barchetta, nato nelle vicinanze. Non si conosce il nome del pittore di allora. È possibile che vi abbia posto mano il Petrini di Carona che illustrò l’interno dell’ossario.
Altresì si può pensare a dei contributi del pittore Bartolomeo Rusca di Arosio e del promotore delle cappelle, l’artista Barchetta Francesco. Quindi nel 1934 il pittore Emilio Ferrazzini eseguì un intervento integrale che fu in seguito costantemente mantenuto su tutti gli affreschi.


La collocazione delle cappelle, l’assetto architettonico del complesso e quello dei viali alberati è tipico del Rinascimento e del Barocco. È una costante epocale. Perciò il percorso della Via Crucis è qui particolare in quanto si snoda su uno spiazzo pianeggiante.
Ciò si discosta dalla tradizione, ma nulla toglie allo scopo religioso. Felice altresì l’iniziativa dell’attuale parroco don Matteo Pontinelli che durante la Quaresima, settimanalmente alla sera si sofferma in preghiera assieme ai fedeli. Un vissuto meditativo che ancor più ne valorizza la struttura.


Il percorso di Carona


Il silenzio del bosco che avvolge il piccolo santuario della Madonna degli Angeli, notevole capolavoro dell’arte barocca costruito nel 1624, contribuisce ad ambientare il cammino penitenziale che degradando porta alla chiesa. Un tracciato di largo respiro, lastricato e acciottolato nella parte centrale.


Lateralmente stanno le 14 cappelle in muratura con il tetto a capanna. Intonacate di giallo, sono richiamo per chi si reca al santuario. La loro nicchia è vuota. Le 14 tele vengono ricollocate nel corso della festa degli Angeli e nella Settimana Santa. Decisione atta a salvaguardare i dipinti, che per l’intera annata sono depositati in chiesa.


L’assieme è armonioso allorquando le tele sono visibili e chiamate a raccontare la passione del Signore. Sono opera dell’artista caronese Tiziano Bernasconi, dipinte nel 1880. Il pittore nasce a Carona nel 1833. Fu persona di notevole capacità ritrattistica. Dipingendo nel silenzio, lasciò a noi numerose valide testimonianze. Ammirando le tele, che propongono visi e persone attivi nel villaggio, sorge la certezza di vivere l’evento pasquale al cospetto degli abitanti i cui visi sono permeati di dolore, rabbia e dolcezza. L’artista stesso è visibile nei panni del Giudeo che si accanisce sulla vittima. Un assieme popolare, valido, la cui memoria ancora coinvolge la comunità

La quale il pomeriggio del Venerdì Santo, si raccoglie davanti alle cappelle, percorre e vive il doloroso momento. Guidato dalla Croce penitenziale il parroco legge l’evangelo che coralmente viene meditato.


La rinnovata Via Crucis di Astano


Sul piccolo dorsale dove campeggia la bella parrocchiale dedicata a San Pietro, costruzione barocca del 1636, il luminoso sagrato ospita le 14 cappelle della Via Crucis, l’ossario e più sotto il camposanto. È luogo di notevole richiamo, incentrato sulla vita del villaggio malcantonese, i cui abitanti nei secoli trascorsi hanno interpretato l’arte sin nella lontana San Pietroburgo, capeggiati dai Trezzini, De Marchi e Morandi. Tornati nel villaggio nel 1815, arricchiscono il sagrato con le cappelle barocche, tutte uguali. La parte frontale bassa porta per tutte un cartiglio con inciso i nomi della famiglie che hanno finanziato l’assieme.


Un discorso architettonico armonioso, signorile. Scancellati dalle atmosfere i primi affreschi, si progetta il restauro. Con fermezza il Consiglio parrocchiale resiste a varie offerte commissionali cantonali. Accetta, con idea innovativa e originale l’offerta dell’artista Sandro Del Prete, originario di Astano, attivo a Berna. Lo stesso realizza un corpus
in bronzo, con la tecnica del bassorilievo formato da 14 stazioni suggestive, uniche nel loro genere inaugurate nel 2004. Sono da ammirare per la loro originalità, e presentano illusioni ottiche di alto prestigio artistico, la tecnica dell’inversione dell’immagine con simbologie particolari. L’artista accompagna il visitatore in un contesto nuovo offrendo a tutti noi un percorso penitenziale di elevata simbologia.


Nel chiostro di Pregassona

Al termine della costruzione della grande chiesa realizzata nel 1996 a Pregassona e dedicata a San Giovanni Battista e Massimiliano Kolbe, l’artista Giancarlo Tamagni realizzò una Via Crucis assai singolare. Un discorso nuovo che si sviluppa sulle pareti del chiostro, sorretto da immagini – non molte, ma significative ed essenziali – intercalate dalle didascalie in bassorilievo.
È un cammino innovativo che impegna notevolmente nella lettura delle frasi incise sulle pareti. La colorazione delle poche immagini è realizzata con la dominanza del bruno,
ciò che suggerisce mestizia e afflizione. Percorrendo le quattro pareti la mente e forzatamente invita a un profondo pensiero meditativo.


Da Comano al colle di San Bernardo


Sul percorso che a monte del villaggio sale alla collina e all’eremo di San Bernardo, nel maggio del 2011 sono state inserite 14 stazioni a segnare la nuova Via Crucis, voluta da una Fondazione e in seguito donata al Comune. Un cippo, posto a lato della prima dice:
Nag Arnoldi, scultore – Giampiero Camponovo, architetto – 2011. La struttura delle stazioni è assai emblematica, difficile da interpretare. Si avvale di un telaio basato sul terreno, vari tralicci verticali e una parete. Il tutto realizzato in ferro, attualmente corroso dalla ruggine. Applicati ai montanti stanno i bassorilievi gettati in bronzo dall’artista locale Nag Arnoldi. Assai esplicativi, originali e di facile lettura. Un’opera di buona caratura che a nostro giudizio sarebbe stata assai valorizzata se inserita in una rustica parete di pietra più armoniosa con il tema, il bosco e meno fuorviante.

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